La linea del terminatore

La linea del terminatore

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Gabriele Biasi con La linea del terminatore parte da una documentazione biografica per elaborare una riflessione sul perdurare dei sentimenti, sulla testimonianza come memoria affettiva, in un dialogo continuo tra il documentario e la suggestione spaziale. Alla SIC@SIC della Settimana Internazionale della Critica di Venezia, dove Biasi ha ottenuto il riconoscimento come miglior regista.

Lo spazio senza tempo

La linea del terminatore è un documentario sulla fuga di Fernanda Gonzalez da Buenos Aires all’Italia. Intrecciando filmati d’archivio di esplorazioni spaziali con il suo archivio personale, il film si concentra sul suo viaggio emotivo, mentre Fernanda è costretta a fare i conti con il senso di colpa per aver lasciato indietro i suoi cari. [sinossi]

La linea del terminatore è quel tracciato del tutto fittizio e ideale che serve in astronomia a separare all’interno di un corpo celeste la parte illuminata – e quindi diurna – da quella in ombra – e dunque notturna. Con acutezza il ventinovenne Gabriele Biasi fa riferimento alla supposta e in ogni caso non inappuntabile delimitazione dicotomica tra ombra e luce per approcciarsi alla storia di Fernanda, la sua protagonista, che abbandonò la natia Buenos Aires dopo aver incontrato sulle Ande Stefano, l’uomo che avrebbe poi seguito in Toscana, a migliaia di chilometri di distanza. Quell’incontro a San Antonio de los Cobres, quasi quattromila metri d’altezza, è già a suo modo fantascientifico, ed è all’iconologia spaziale, nel ricorso a immagini di repertorio, che Biasi rintraccia il contrappunto ideale a questo racconto intimo, personale. La linea del terminatore, che è stato presentato in anteprima nel concorso SIC@SIC della Settimana Internazionale della Critica di Venezia, dove trovano collocazione i lavori italiani sulla breve distanza, non è un cortometraggio canonico, e non si muove in direzione di un approccio lineare a ciò che sta mettendo in scena. Biasi opera su più livelli differenti, intersecandoli tra loro, sia sotto il profilo dell’immagine che per quel che concerne l’utilizzo del sonoro. C’è l’archivio video privato di Fernanda Gonzalez, ovviamente, con tanto di riproposizione delle sue azioni sul palco teatrale, cui però risponde il found footage relativo alle partenze di razzi, agli addestramenti degli astronauti, alla tecnologia spaziale; c’è poi ovviamente il materiale girato ex novo da Biasi, che ha optato per il super-8 (alla fotografia c’è Andrea Benjamin Manenti, al Lido anche con Una sterminata domenica, l’esordio al lungometraggio di Alain Parroni). Una scelta, quest’ultima, che non appare in nulla un vezzo autoriale, ma serve ad amalgamare con maggiore forza le differenti fonti visive, e forse a delocalizzare temporalmente il racconto.

Alla stessa stregua dell’immagine la componente sonora si muove in una direzione completamente dialettica: se il racconto si articola attraverso un lungo monologo della protagonista, che di fatto racconta fatti salienti della propria vita, e i motivi che la spinsero a lasciarsi alle spalle l’Argentina per trasferirsi in Italia, il regista apre comunque un dialogo con i rumori delle apparecchiature spaziali da un lato e le registrazioni che da migliaia di chilometri di distanza Fernanda spediva alla sua terra di origine. Un po’ come voci registrate lanciate nello spazio, in un nuovo riferimento ideale alla fantascienza che testimonia una volta di più la profonda ricerca umana di questo breve e affascinante opera. Prima ancora di essere la testimonianza biografica di una determinata concatenazione di eventi che videro per protagonista Fernanda Gonzalez, La linea del terminatore è una riflessione sulla memoria affettiva, il suo essere disincarnata, la sua possibilità di attraversare lo spazio e il tempo, e lo spazio al di là del tempo – di nuovo, ecco la necessità di sfuggire a una collocazione temporale troppo precisa – per persistere, rinnovando il patto mai esplicitato che lega gli esseri umani tra loro. Per quanto si tratti probabilmente di una suggestione non voluta, la speculazione di Biasi non si muove a eccessiva distanza da quella che portava avanti oltre venti anni fa Makoto Shinkai in Hoshi no koe, vale a dire La voce delle stelle: anche lì un cortometraggio, anche lì la fantascienza che si mescola a una dimensione prettamente umanista, anche lì la necessità di inviare messaggi ai propri affetti più cari per testimoniare la propria stessa esistenza. Shinkai articolava il suo discorso ricorrendo all’animazione, Biasi sceglie di fondere i diversi aspetti del vero – il documentario, la testimonianza, il materiale d’archivio – per creare una narrazione che possa espandersi anche oltre i confini della mera esistenza di Fernanda, che pure com’è ovvio ne resta la splendida protagonista.

La linea del terminatore non ha timore di sperimentare per raggiungere il proprio obiettivo, interrogandosi su quale sia il senso del cinema e del riutilizzo dell’immagine preesistente – e del suono preesistente, come già evidenziato –, in un’epoca che l’immagine sembra averla predigerita senza neanche averla davvero mai assaporata. Il fascino vintage che rilascia il cortometraggio di Biasi è dunque quasi un’ancora, uno spazio intimo perché desueto ma pronto ad accettare la sfida del viaggio verso l’ignoto spazio profondo, quel luogo insondabile dove forse il buio è secato nettamente dalla luce, ma quella linea in fin dei conti non serve a delimitare e dividere, ma a unire universi – anche cinematografici, ma soprattutto umani e affettivi – che altrimenti rischierebbero la deriva.

Info
La linea del terminatore sul sito della SIC.

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