Storia del Giappone del dopoguerra raccontata da una barista

Storia del Giappone del dopoguerra raccontata da una barista

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Dopo l’insuccesso di pubblico cui è andato incontro il magnifico Il profondo desiderio degli dei Shōhei Imamura è costretto per un decennio a dirigere documentari a basso costo: Storia del Giappone del dopoguerra raccontata da una barista, il più celebre di questi, si rivela anche come straordinario ragionamento sul cinema come documento della realtà e sull’antropologia giapponese, oltre che amara riflessione sulla propria nazione.

Cronaca entomologica del Giappone

Il regista Shōhei Imamura contatta la signora Emiko Takada, che da più di dieci anni gestisce un locale a Yokosuka, città della prefettura di Kanagawa affacciata sul Golfo di Tokyo. Prendendo spunto dalla presenza della marina statunitense in città, e approfittando dell’interessante vissuto della signora Takada, Imamura convince la donna a raccontarsi davanti alla macchina da presa. Ne viene fuori un ritratto del controverso Giappone del secondo dopoguerra. [sinossi]

In Camera Obstrusa: The Action Documentaries of Hara Kazuo, pubblicato nel 2009 da Kaya Production si può leggere tra gli spunti di riflessione di Hara: «Anche se potremmo parlare di sfera del privato nel senso dei valori e delle sensibilità di un individuo, osservando più da vicino il modo in cui ogni individuo fa esperienza del mondo – i suoi sentimenti – sono portato a credere che questi stessi valori, questi diversi modi di percepire il mondo, contengano un elemento istituzionalizzato e quindi auto-contraddittorio. Quando prendo la mia macchina da presa, cercando di sfidare questi elementi istituzionalizzati, devo quindi per forza puntarla sul mondo dei sentimenti all’interno degli individui. Come risultato – o come necessaria conseguenza – non ho altra scelta che quella di oltrepassare i limiti della sfera del privato». Chissà quando accadrà che il mondo della critica cinematografica italiana allargherà lo sguardo verso Oriente, e il Giappone in particolar modo, per scoprire e studiare la loro sterminata produzione documentaria: un esercizio che neanche i più attenti cultori del cinema dedito alla ripresa del “vero” sembrano interessati a compiere (ci sono le dovute eccezioni, ovviamente, come Matteo Boscarol o Federico Rossin: caso vuole che nessuno dei due viva stabilmente in Italia). Nomi come quelli del già citato Kazuo Hara, e con lui di Susumu Hani, Shinsuke Ogawa, Noriaki Tsuchimoto, Shiroyasu Suzuki, Hideto Ishii, Mitsuo Sato, Tetsuya Mori, sono quasi completamente se non del tutto sconosciuti alla stragrande maggioranza dei cinefili, che ignorano perfino i film documentari di cineasti che vengono solitamente accomunati alla produzione “di finzione”, come ad esempio Naomi Kawase (tra i suoi documentari impossibile non citare almeno Embracing, del 1992, e Tarachime, del 2006) e Hirokazu Kore-eda (I Wish I Could Be Japanese, 1992, Birthplace, 2003, tra gli altri). Quando Il Festival di Torino dedicò nel 2009 una retrospettiva integrale a Nagisa Ōshima fu facile rendersi conto come la sua sterminata produzione documentaria, quasi una ventina di titoli tra i quali i fondamentali La guerra per la Grande Asia Orientale, Goze: musiciste girovaghe cieche, La fortezza della tenacia, e L’isola dell’onorevole morte: percorrendo il fondo del mare di Saipan – Testimonianze viventi, apparteneva per i più alla sfera del mistero. D’altro canto il fluviale e bellissimo La storia dei canali di Yanagawa di Isao Takahata scompare nella memoria collettiva rispetto ai capolavori d’animazione del grande cineasta. Lo stesso discorso lo si deve affrontare avvicinandosi a にっぽん戦後史 マダムおんぼろの生活 (Nippon Sengoshi – Madamu onboro no Seikatsu), vale a dire Storia del Giappone del dopoguerra raccontata da una barista, e nel complesso per la produzione documentaria di Shōhei Imamura.

Imamura aveva rotto con la produzione “istituzionale” giapponese alla metà degli anni Sessanta, stracciando il contratto con la Nikkatsu e fondando la propria casa di produzione con la quale potersi lanciare in imprese personali senza essere costretto a scendere a compromessi di sorta. Una scelta coraggiosa ma che non pagò sotto il profilo strettamente economico, anche per via della negativa accoglienza di uno dei suoi lavori più personali, stratificati, e compiuti, quel Il profondo desiderio degli dei (神々の深き欲望, Kamigami no Fukaki Yokubo) rivalutato successivamente come uno dei capolavori della produzione nipponica del decennio ma che nel 1968 sostanzialmente allontanò per un decennio Imamua da produzioni di finzione, troppo costose e dunque rischiose. Il regista si avvicinò dunque al documentario a basso costo, con l’intenzione di spostare il proprio sguardo entomologico sul Giappone contemporaneo da una prospettiva narrativa classica a uno scandaglio nelle ferite ancora aperte – e vere, visibili – di una nazione uscita disfatta solo venticinque anni prima dalla Seconda guerra mondiale. Il primo film della sua produzione documentaria è anche quello tutt’ora più noto – eufemismo, ovviamente – in occidente, vale a dire Storia del Giappone del dopoguerra raccontata da una barista. Il titolo, che può apparire ironico o sarcastico, non è altro se non la descrizione dettagliata di ciò cui andrà incontro lo spettatore nelle due ore scarse della visione: Imamura incontra una donna di mezza età, Emiko Takada, che da oltre un decennio gestisce un locale a Yokosuka, città della prefettura di Kanagawa affacciata sul Golfo di Tokyo. Il film non è altro che una lunga intervista a questa donna, attraverso la quale il regista riesce a entrare nel vivo dell’evoluzione storica e sociale del Giappone a cavallo tra le bombe su Hiroshima e Nagasaki e il boom economico. Trent’anni di eventi sconvolgenti per una nazione che fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale era abituata a parlare dell’Imperatore come se si trattasse di una divinità incarnata.

L’intento politico (e polemico nei confronti del bigottismo dei suoi tempi) di Imamura è possibile riscontrarlo fin dalla scelta del soggetto protagonista: la signora Takada, padrona del bar Onboro a Yokosuka (strappato a un mafioso di Yokohama destinato al fallimento dopo aver ferito un soldato americano), non rappresenta alcun modello di virtù. Figlia di una famiglia di macellai, ha vissuto un’esistenza alla continua ricerca di un benessere impossibile, praticando attività più o meno lecite e saltellando senza preoccupazione da una relazione all’altra, sempre in attesa di riuscire, prima o poi, a raggiungere una posizione agiata. Il Giappone descritto da Imamura è dunque una terra di arrivisti, devastata da una struttura sociale rigida e classista e nella quale la polizia svolge un ruolo esclusivamente repressivo. Un girone dell’inferno dantesco, abitato di personaggi oscuri, affiliati della yakuza, borsisti al mercato nero, prostitute, soldati americani ubriachi nelle lunghe notti passate di bar in bar: vittime e allo stesso tempo carnefici, figli di un Giappone che si vorrebbe “nuovo” ma vive ancora in pieno i dissesti politici che l’hanno sconvolto. In un film che vive e respira completamente sul volto dei suoi testimoni (vengono intervistati anche altri membri della famiglia della donna, in un percorso che abbraccia ben tre generazioni differenti), a intervalli regolari fanno capolino le immagini di repertorio che accompagnano la storia raccontata dalla signora Takada: i bombardamenti atomici, la celeberrima Dichiarazione della natura umana dell’Imperatore, le nozze dell’erede al trono, le epurazioni compiute nei confronti dei militanti comunisti, gli scontri di piazza contro il trattato nippo-americano, l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, le guerre in Corea e Vietnam. Il privato di una donna del popolo si confronta dunque con il pubblico di un’intera nazione, che cova dentro di sé una rabbia repressa solo a stento, e a tratti. Storia del Giappone del dopoguerra raccontata da una barista si mette in luce dunque come una delle più coerenti e crudeli incursioni nell’intimità di un Giappone malato, che nasconde dietro l’apparente opulenza capitalista il proprio malessere. Non è dunque motivo di stupore scoprire come il documentario di Imamura sia stato a lungo messo all’indice in patria, accusato di evidenziare con troppo cinismo aspetti poco edificanti di una grande potenza mondiale: basterebbero in tal senso già solo le immagini iniziali, con la macellazione dei bovini, per chiarire il punto di vista di Imamura su ciò che sta narrando. Senza mai giudicare i propri testimoni, e al contrario cercando una dialettica priva del falso moralismo solitamente in uso in parte dei documentari interessati a un’indagine sociologica, il regista sfodera con Storia del Giappone del dopoguerra raccontata da una barista un’opera monumentale, arricchita da uno stile inafferrabile ed estremamente dinamico. Un prodotto che può apparire come la versione “reale” dei jitsoruko eiga (“film come veri documenti”) che di lì a pochissimo esploderanno sugli schermi giapponesi con le opere di Kinji Fukasaku, e che racconta più sulla storia del suo Paese e della cultura dominante di quanto facciano molti prodotti assai più smaccatamente d’inchiesta. Imamura tornerà a dirigere opere di finzione solo nel 1979, con La vendetta è mia (復讐するは我にあり, Fukushū suruwa ware ni ari), ma quel decennio dedicato interamente alle produzioni documentarie meriterebbe una riscoperta critica: oltre a Storia del Giappone del dopoguerra raccontata da una barista impossibile non pensare almeno a Alla ricerca dei soldati che non hanno fatto ritorno (未帰還兵を追って, Mikikanhei o otte, 1971), che racconta dei militari giapponesi che preferirono restare in Malesia dopo la fine del conflitto mondiale, o Muhomatsu torna al paese natale (むほうまつこきょうにかえる, Muhomatsu koyo ni kaeru, 1973), che si concentra sul ritorno in patria proprio di uno di questi soldati.

Info
Una videointervista a Shōhei Imamura.

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