Amore sublime

Amore sublime

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Melodramma classico dallo struggente crescendo narrativo, Amore sublime di King Vidor conduce un’avvincente riflessione su individuo e società appoggiandosi a una visione del mondo spietatamente deterministica, in virtù di un’idea di maternità santa e proletaria. Splendida la prova di Barbara Stanwyck.

Mater dolorosa

Di umili origini, Stella Dallas è una giovane ambiziosa che punta a fare un ricco matrimonio per migliorare la propria condizione sociale. Riesce nell’intento, convolando a nozze con Stephen, titolare impomatato e ingessato della fabbrica vicino a casa. Stella si propone di imparare a vivere nell’alta società, ma ben presto si stufa del clima di lezione continua che regna sulle sue giornate di moglie. Nasce anche una bambina, Laurel, che Stella cresce con un senso di caos, allegria e disordine poco consoni alle abitudini dell’altolocato Stephen. Passano gli anni, il rapporto coniugale s’incrina, ma Stella e Laurel sono molto legate e non accettano di essere separate… [sinossi]

Cuore di mamma. Il più viscerale. Il più puro. O meglio, quello che più di tutti riscopre la purezza della propria missione. Come molti dei melodrammi classici, anche Amore sublime (King Vidor, 1937) propone un percorso di redenzione, compiuto attraverso il più alto dei sacrifici. Spesso nei panni di dark lady (o quantomeno di seducente arrampicatrice sociale), anche in questa occasione Barbara Stanwyck prende le mosse da un profilo umano assimilabile ai suoi personaggi più frequenti, ma collocandolo stavolta in una sorta di calvario verso l’autocoscienza. Il dramma di Stella Dallas non nasce con questo film; proviene da un best seller letterario di Olive Higgins Prouty, pubblicato nel 1923, e in epoca del muto già adattato per il cinema con Stella Dallas (Henry King, 1925). La vicenda narrata contiene a suo modo anche risvolti edificanti, che devono aver fatto piacere probabilmente allo spirito fortemente cristiano di Vidor. Il film tratta infatti di un caso emblematico di amore materno che si spinge fino al paradosso della negazione di se stesso per la felicità della prole. Sulle prime Stella è una giovane seducente e arrivista, che fra i vari lavoratori della fabbrica vicina a casa punta direttamente a sposarsi con il titolare, l’impomatato e seriosissimo Stephen. Ci riesce, e Stella scopre il piacere della bella vita e del più splendente benessere materiale. «I hate glasses that don’t shine», afferma baldanzosa mentre si avventa a spolverare un bicchiere opaco. La brillantezza del benessere la acceca e la travolge. Vuole imparare tutto, dice a Stephen. Vuole imparare a vivere nell’alta società.
Qualche tempo dopo, tuttavia, Stella giunge a constatare la pesantezza della lezione continua in cui si è trasformata la sua vita. È riuscita a sposarsi con Stephen, ma il marito non manca mai l’occasione per farle notare l’inadeguatezza popolaresca dei suoi comportamenti e delle sue frequentazioni. Alla compostezza dell’alta borghesia Stella preferisce ballare sfrenatamente, magari anche in compagnia di un altro uomo. La schiettezza popolare è un alito di vita vera e di piacere (irregolare, sbilenco, talvolta pure francamente inopportuno) al quale Stella non sa rinunciare. Cosicché anche uno scherzo sul treno in compagnia di un amico (un frammento sbellichevole di slapstick comedy che si apre d’improvviso in un globale mood melodrammatico) si trasforma, agli occhi dei benpensanti che vi assistono, in occasione di indignazione e di giudizio malevolo. Perché Stella ride troppo, sguaiatamente e smodatamente. Di lì allo stigma sociale non vi è che un passo, e intorno a Stella viene fatta terra bruciata. Prese le mosse dall’ambizione di fare un ricco matrimonio, la donna scopre in realtà che l’unica proprietà alla quale non vuol rinunciare è sua figlia Laurel, sia pure prematuramente esposta al chiasso e all’alcool della vita allegramente scomposta di sua madre. Da parte di Stella l’amore materno esplode repentino e istintivo, subito dopo la prima minaccia del marito Stephen di toglierle la bambina. Si avvia dunque un melodramma familiare all’insegna di una vera e propria redenzione cristiana (Stella, specie nel finale, finisce per delinearsi per una madre santa – glielo riconoscerà con piena consapevolezza anche la sua rivale in amore) che tuttavia finisce per costeggiare i tratti di un melodramma “marxista”, punteggiato di riflessioni complesse e problematiche sul rapporto fra individuo e società, sulla collocazione dell’individuo stesso all’interno di rigidi schemi di classe che non soltanto rendono impossibile qualsiasi fuga, ma che plasmano anche i desideri, le aspirazioni e i modelli educativi del singolo. Intorno a Stella Dallas si dispiega un sistema sociale talmente protervo, avido e vorace che, pur straripante di benessere materiale e in condizioni tali da poter soddisfare qualsiasi necessità, punta comunque a sottrarre all’individuo non abbiente anche quel poco che ha. Che è tantissimo, in realtà. Una figlia.

«Prima viene la pancia piena, poi viene la morale» diceva Bertolt Brecht. È chiaro a tutti che sia più nobile regalare a Laurel un’istruzione piuttosto che una pelliccia. Eppure Stella non riesce a vedere più in là dei propri desideri. La pelliccia, oggetto di sfarzo esibito, è l’orizzonte di desiderio che la fantasia di Stella riesce a concepire. L’ha desiderata tanto, appoggiata alla staccionata del giardino di casa, quando abitava con i genitori. Stella ha desiderato il lusso che la società ha deciso essere la felicità. L’ha deciso per lei, e gliel’ha insegnato. Gliel’ha fatto invidiare, soprattutto. Per cui ai suoi occhi la felicità di Laurel è arrivare lì, a possedere ciò che posseggono le persone che contano. Amore sublime giunge in tal senso a un sorprendente ribaltamento di prospettiva, laddove il politically correct delle persone istruite, ben pettinate e ben educate, pronte a giudicare l’irregolarità di Stella, è messo in scacco in un territorio di privilegio. È facile fare gli schizzinosi e i giudicanti quando si è avuta l’opportunità di studiare, di imparare a desiderare le cose giuste, quelle che nobilitano, quelle che rendono migliori. Stella ha potuto imparare soltanto a desiderare la roba d’altri.
Nella vita di Stella vi è una porzione di caos che mal si attaglia al ruolo di madre. Eppure l’arroganza del mondo circostante è assai più feroce. In realtà, nel disordine della sua vita Stella garantisce a Laurel il calore dell’abbraccio che nessun altro le concede. Il crescendo drammatico orchestrato da Vidor è prodigioso, e al contempo spietato e asfissiante nel suo ineluttabile ingranaggio. Amore sublime raggiunge vette di notevole disagio nella descrizione dei meccanismi di esclusione sociale che pian piano accerchiano Stella, allontanandola da sua figlia passo dopo passo. Dopo la festa di compleanno per Laurel disertata da tutti gli invitati Vidor confeziona il capitolo più struggente durante la vacanza che Stella regala a Laurel. Desiderosa di far felice la figlia, Stella si tramuta in artefice della sua infelicità perché la società non ha pietà per lei. Quando Laurel ammette che preferisce tornare a casa, Stella va probabilmente incontro al turning point decisivo della sua vicenda. Accusa la figlia di egoismo (dopo tanti dispiaceri, anche Stella meritava la sua vacanza; come darle torto?) e al contempo compie il primo passo verso un altruismo totale, verso l’annullamento di se stessa per la felicità altrui. Si tratta di una rigida, pressoché schematica redenzione edificante, ma anche della spietata disamina di una graduale e inarrestabile spoliazione di un individuo innescata da un sistema più grande, più forte e più schiacciante del singolo essere umano. Non sembrerà dunque una forzatura (non più di tanto…) parlare di melodramma marxista e gramsciano. Quando si dice la materia che sfugge di mano al suo autore… King Vidor, tanto per dire, nel secondo dopoguerra fece parte della Motion Picture Alliance for the Preservation of American Ideals, discussa organizzazione cinematografica anticomunista.

Alle ultime battute Stella infatti si arrende. Laurel merita una madre diversa, più allineata alla cultura dominante. Una madre e una famiglia del tutto inseriti nel sistema che possano garantire a sua figlia un futuro di inclusione. Perché in ultima analisi, nella società ipocrita narrata da Vidor l’inclusione è tutto. Stare fuori significa essere estromessi dalla felicità. O magari ottenere sì la felicità (come Stella crede in un primo momento tramite il matrimonio), ma per finta, una pallida imitazione. Imitation of Life. La società illude di includere, ma al massimo lascia vedere la vera felicità attraverso un vetro trasparente. Si vede, ma non si può avere. Il vetro sta in mezzo, come davanti a un’esposizione di pasticceria. Nessuna reale possibilità di crescita individuale, nemmeno per mezzo del più discutibile matrimonio d’interesse. Gli steccati restano. Le barriere sociali restano. La diversa educazione non si cancella. Anche se ben vestita, agli occhi dei benpensanti una figlia di operai resta tale per tutta la vita. Per cui, tramite il massimo sacrificio di se stessa, Stella non fa altro che andare incontro a una ben precisa manifestazione di determinismo sociale imposto dall’alto. In un finale a suo modo trionfante, in realtà Stella non è più niente. Non è più una proletaria, non è più una donna benestante, e non è nemmeno più una madre.
Sul piano linguistico Amore sublime è piena espressione di classicità americana. Tuttavia Barbara Stanwyck è una nuova diva dinamica, impastata con la realtà, ben lontana dalle pose ieratiche dell’aulica femme fatale (Greta Garbo, Marlene Dietrich) di qualche anno prima. Stella Dallas è piantata nella realtà fino al ginocchio. Almeno alle prime battute è bizzosa, seducente, manipolatrice, e il marito appare un beota che si fa rivoltare come un calzino. A poco a poco le proporzioni si ribaltano. Il marito, come si dirà qualche decennio dopo in L’eredità Ferramonti (Mauro Bolognini, 1976), «ha dalla sua il mondo», ed è destinato a vincere. Nella buona educazione serpeggia costante l’arroganza dei potenti. Da questa riflessione dolorosamente sociale emerge pure una sommessa suggestione metalinguistica intorno al cinema stesso. Nel 1937 il cinema è una risorsa di stupore e meraviglia ancora relativamente giovane, carica della forza dirompente della novità artistico-tecnologica generatrice di mito e desiderio. All’esordio Stella confessa infatti di desiderare di vivere come dentro a un film. A perfetta chiusura del cerchio risponde il finale, in cui la donna, ormai spogliata di tutto, assiste al matrimonio della figlia guardando fuori da una finestra, laddove la finestra assume la medesima funzione di uno schermo cinematografico. Culla di aspirazioni, meraviglia e desideri, il cinema si tramuta in spietato strumento di esclusione sociale. Stella può soltanto vedere da lontano la vita che ha desiderato e, per un po’ di anni, vissuto. Come al cinema, è una spettatrice della vita. Per sempre. Come da dietro la staccionata del giardino di casa, a veder passare papabili futuri mariti, sognando di essere felice.

Info
Amore sublime sul sito del Palazzo delle Esposizioni.

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