Osamu Tezuka, animatore (e mangaka)

Osamu Tezuka, animatore (e mangaka)

In occasione del Japanese Film Festival Online 2024 e della proiezione all’Istituto Giapponese di Cultura di Roma di Kimba, il leone bianco (1966) di Eiichi Yamamoto, tratto dall’omonimo manga di Osamu Tezuka, cerchiamo di ripercorre il cammino del Manga no Kami-sama all’interno dell’industria degli anime, dai primi anni della Mushi Production fino al consolidamento della Tezuka Productions.

Ha gioco facile Helen McCarthy quando deve trovare un titolo per la sua monografia su Osamu Tezuka, ovvero Osamu Tezuka. Il dio del manga, da noi pubblicato dalla Edizioni BD nel 2010 in un’edizione gustosissima, cartonata, ricchissima di immagini di anime e fumetti. Perché, ma è oramai cosa nota, l’instancabile mangaka e animatore giapponese si era conquistato l’onore e l’onere di essere definito dai suoi connazionali proprio Manga no Kami-sama. Un titolo roboante, ma che effettivamente rende l’idea del ruolo chiave di Tezuka nella storia del fumetto giapponese, senza dimenticare l’altrettanto centrale importanza nello sviluppo dell’industria degli anime, da qualsiasi angolazione la si voglia guardare.
Non è questa l’occasione per avventurarsi in un vero e proprio profilo di Osamu Tezuka e delle sue opere, soprattutto della sua maestosa produzione cartacea (si parla di 700 storie e un totale di circa 170.000 tavole), ma possiamo quantomeno cercare di fissare alcuni paletti lungo la sua parabola di animatore, sceneggiatore, regista e produttore. Insomma, Tezuka ha fatto ovviamente di tutto all’interno del processo produttivo di un anime, saltabeccando tra serie televisive, lungometraggi cinematografici, special per il piccolo schermo, cortometraggi sperimentali e via discorrendo. Instancabile, vulcanico, come lo era sul fronte manga. Bibliografia e filmografia tezukiane ovviamente si intrecciano, si rincorrono, si sostengono vicendevolmente – ancora oggi, anche da noi, visto che troviamo un numero più che apprezzabile dei suoi manga anche nelle librerie e fumetterie italiane e che una parte dei suoi anime hanno segnato e ancora segnano l’immaginario spettatoriale del Bel Paese.

Come possiamo definire l’animazione di Tezuka? Ecco, non c’è una sola risposta. Per prima cosa, forse si dovrebbe provare a scindere la filmografia propriamente tezukiana, ovvero quella che ha potuto contare su un suo decisivo intervnto creativo, dalla parallela filmografia legata ai suoi manga – senza contare, in questo secondo caso, tutta quella produzione avviata da Tezuka prima della sua scomparsa e quella successiva della Tezuka Productions, ancora oggi attiva e propositiva. Ma già qui, in realtà, siamo costretti a frenare bruscamente, facendo un balzo in un futuro passato: che cos’è allora Metropolis? Il film diretto da Rintarō e scritto da Katsuhiro Ōtomo nel 2001 non è forse un esempio tanto lampante quanto genuino della filosofia tezukiana? E se la computer grafica non era uno strumento maneggiato da Tezuka, come non notare l’assoluta importanza del suo character design? Eredità artistica, certo. Linee derivative, altrettanto certo. Eppure questo straordinario film di inizio millennio, uscito nelle sale dodici anni dopo la morte di Tezuka (1928-89), ci è sempre sembrato pienamente tezukiano, una sorta di miracolosa realizzazione di quello che sarebbe potuto essere se, con tutti quei mezzi, il Manga no Kami-sama fosse stato ancora tra noi.

O magari no, ripensando all’esperienza alla Tōei Dōga, al doloroso fallimento della Mushi e alla politica tezukiana legata più alla quantità che alla qualità – la mente corre a lungometraggi televisivi Undersea Super Train: Marine Express (1979) e One Million-Year Trip: Bandar Book (1978), appassionanti dal punto di vista narrativo, debordanti per creatività ma zoppicanti sul piano tecnico e artistico. Ma anche in questo caso, in realtà, focalizzandosi sulla filmografia tezukiana ci si imbatte nello splendido mediometraggio Tales of a Street Corner (1962), scritto da Tezuka e diretto da Eiichi Yamamoto (che firmerà nel 1973 l’ultimo atto della Mushi, lo sfortunatissimo Belladonna of Sadness), e allora la prospettiva cambia radicalmente. Si vedano, ad esempio, i cortometraggi Memory (1964), Mermaid (1964), Jumping (1984), Legend of the Forest, Part I (1987) e Muramasa (1987). Sembra quasi un altro autore, un altro animatore, più avvezzo alla stilizzazione o al minuzioso dettaglio, ai cromatismi caleidoscopici, insomma alla sperimentazione. Osamu Tezuka è stato anche questo, un artista sperimentale, alla ricerca di nuove linee e idee, anche alla rivisitazione disneyana, all’omaggio, al tradimento delle sue opere precedenti. Ma la frattura tra i corti e le produzioni mainstream di Mushi e Tezuka Productions è in fin dei conti solo un’impressione sbrigativa, legata alle logiche produttive: perché, a ben guardare, anche i titoli televisivi più commerciali sono sempre stati forieri di novità, intuizioni, preziosismi. Si pensi, ad esempio, ai cromatismi e alle geometrie della serie La principessa Zaffiro (1967-68), alle imprese pionieristiche di Kimba, il leone bianco (1965-66), prima produzione televisiva interamente a colori, e di Astro Boy (1963-66), che ha di fatto lanciato in orbita l’industria degli anime, facendo da apripista sul piccolo schermo – se Tezuka non ha inventato i manga ma li ha elevati a una nuova dimensione, si può dire lo stesso con la serialità televisiva: è lo strepitoso successo di Astro Boy a mostrare alle case di produzione nipponiche che storie di lunga durata, articolate e persino di fantascienza potevano conquistare i cuori dei piccoli spettatori.

Il nostro breve viaggio si conclude inevitabilmente con un altro detour. Dopo aver incensato il magnetismo di Tezuka sui bambini, incollati al televisore, eccoci al progetto Animerama della Mushi Production. Uno straordinario fallimento. Pop, adulto, sfrontato. A letto i bambini! Anche se, a dire la verità, Tezuka non ha mai avuto problemi con Eros e Thanatos: pensiamo a Kimba, che è il suo Bambi, e al solito Astro Boy, il suo Pinocchio, ma anche alle avventure rosa de I bon bon magici di Lilly (1971-72).
Ambiziosi, visionari, a loro modo folli, Le mille e una notte (1969), Cleopatra (1970) e il surrealista Belladonna of Sadness incarnano perfettamente lo spirito di fine anni Sessanta e inizio Settanta. Si pensa a un’animazione adulta in ogni senso, come grafica, contenuti, ritmo, impegno. Tezuka pianifica i primi due, mentre al terzo non mette mano, il suo percorso era oramai altrove. Alla regia delle tre pellicole ritroviamo il solito Eiichi Yamamoto, capace di districarsi senza problemi tra repentini cambi grafici e di genere. Ovviamente è molto più vasta la filmografia di Tezuka, che si era affacciato all’animazione, suo sogno da sempre, grazie alla Tōei Dōga: Le 13 fatiche di Ercolino (1960), Le meravigliose avventure di Simbad (1962) e Doggie March (1963). Poi la Mushi, la Tezuka Productions e un ritmo creativo quasi disumano, incomprensibile, probabilmente divino. Manga no Kami-sama.

PS: premesso che la diffusione dei manga di Tezuka in Italia negli ultimi anni si è fatta ricca, indichiamo alcuni titoli da cui si potrebbe iniziare, come La nuova isola del tesoro, Metropolis, Lost World, Next World, La principessa Zaffiro e Kimba, il leone bianco. Quindi alcune raccolte di racconti, dal taglio più adulto: The Crater, Mela meccanica e Cavie umane. Un paio di storie davvero singolari: Il mondo in una bottiglia e I.L. La ragazza dai mille volti. L’affresco collettivo Osaka, 1945. Infine, alcune delle sue opere più note e corpose: I tre Adolf, Black Jack, Buddha e La Fenice. Ma c’è poi molto molto altro…

Info
La scheda di Kimba, il leone bianco sul sito del Japanese Film Festival Online 2024.
Il sito del Japanese Film Festival Online 2024.
Il canale youtube della Tezuka Productions.

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