Maria

Maria, il film con cui Jessica Palud vorrebbe omaggiare la compianta Maria Schneider, si trasforma quasi da subito in un pericoloso boomerang: peccando di semplificazione, e denotando una estrema superficialità tanto cinematografica quanto introspettiva, la regista finisce paradossalmente per offendere la memoria dell’attrice che venne lanciata sul proscenio internazionale tra gli altri da Ultimo tango a Parigi. Un’opera anodina, per certi versi irricevibile, ed espressivamente mediocre. In Cannes Première.

Dal burro all’eroina il passo è breve

Maria non è più una bambina e non è ancora adulta quando prende il via la pellicola di un film sulfureo diventato cult: Ultimo tango a Parigi. In fretta e furia Maria diventa famosa, ma la giovane attrice è un’icona non preparata né alla fama né allo scandalo… [sinossi]

A cinque anni di distanza da Revenir, l’esordio al lungometraggio con cui ottenne anche un riconoscimento per la miglior sceneggiatura nella sezione Orizzonti di Venezia 2019, la quarantaduenne Jessica Palud torna alla regia con Maria, che trae ispirazione da Tu t’appelais Maria Schneider, che la cugina Vanessa Schneider ha dedicato alla vita della sfortunata attrice cinquantottenne nel febbraio 2011. Un libro che tornò a rinverdire i fasti mai sopiti della polemica tra Schneider e Bernardo Bertolucci per quanto accadde (o non accadde) sul set di Ultimo tango a Parigi; è interessante che Palud abbia svolto il suo primo lavoro su un set, appena ventenne, partecipando come stagista alla lavorazione di The Dreamers, il film con cui Bertolucci tornò a girare a Parigi a trent’anni di distanza dal film che rischiò di essere addirittura mandato al macero, e per cui il regista parmense affrontò un doloroso processo. Interessante non perché Palud sia in qualche modo detentrice di una verità su Bertolucci, ma per l’esatto opposto: l’illusione di poter “smascherare” il colpevole con ogni probabilità si fa più corposa se viene coinvolta una persona che con il supposto carnefice ha avuto un rapporto personale, anche se magari superficiale. Perché è evidente come la vera protagonista di Maria, presentato in Cannes Première sulla Croisette, non sia Schneider – che anzi anche e soprattutto in questo caso diventa vittima dello sguardo della regista – ma la vituperata sequenza “del burro”, quella attorno a cui da decenni si articolano la maggior parte delle ciacole cinematografiche (ben diverse dal concetto di “critica”) che riguardano Ultimo tango a Parigi. Come si trattasse del peccato originale Palud, anche autrice della sceneggiatura insieme a Laurette Polmanss, riduce l’intera esistenza di Schneider, e tutti i suoi traumi, all’aver girato la scena in cui Marlon Brando la sodomizza costringendola a ripetere il suo monologo. Una scena studiata a sua insaputa, organizzata a sua insaputa, e girata – ovviamente ciò che sostiene il film – contro la sua volontà.

Pur avvicinandosi al film con un misto di curiosità e circospezione, l’impressione è che da un’opera simile si potesse ordire un interessante studio sul rapporto di forza tra regista e attrice, sulla verità umana insita nella finzione cinematografica, e via discorrendo, e invece ci si trova davanti un monolite a suo modo ottuso, impegnato sic et simpliciter in una mera requisitoria contro Bernardo Bertolucci, additato neanche fosse un serial killer e ridotto a uomo meschino e profittatore del tutto disinteressato agli esseri umani, con particolare menefreghismo verso l’universo muliebre. E non è neanche importante che ciò sia o meno vero, perché l’impressione è che Palud non si sia nemmeno resa conto che riducendo ogni singolo problema personale della sua protagonista (davvero deludente la prestazione scenica di Anamaria Vartolomei) a quel singolo evento accaduto sul set non si stia riparando alla memoria di Maria Schneider, ma la si stia offendendo, ricorrendo al patetico. Con tutto ciò che ha dovuto affrontare (la dipendenza dall’eroina, che in modo subdolo a sua volta Palud fa discendere dal non superamento di ciò che avvenne con Bertolucci, i problemi psicologici) Schneider è stata un’ottima interprete, un’attrice sensibile e intelligente, perfettamente in grado di gestirsi in scena: in Maria invece si fa intendere al pubblico che la sublime reazione attoriale a quel che il personaggio di Brando le sta facendo non sia altro che la replica naturale per contrasto a un atto subito. Depauperandola dunque del suo diritto a essere riconosciuta come attrice anche e soprattutto in quel contesto.

Per il resto Maria si muove nei solchi prevedibili e stanchi di un biopic televisivo, assumendo come verità che nella vita degli esseri umani a ogni azione faccia seguito una reazione, e che ogni evento sia prodromico a uno slittamento di senso dell’esistenza. Un bignami semplicistico, che mette insieme il burrascoso rapporto con la madre, l’idolatria verso il padre mai davvero conosciuto, i già citati problemi con l’eroina, e l’essere additata come prostituta per il semplice fatto di aver preso parte al cast di un film che spezzava con l’immaginario placido e borghese. Non ha idee, Palud, né coraggio, e a parte il j’accuse contro Bertolucci non sembra trovare mai il bandolo della matassa, disinteressata com’è la regista ad approfondire realmente il proprio rapporto con Schneider, a problematizzare ciò che invece pretende facile. Un’operazione in tutta franchezza indifendibile, visto che Bertolucci non ha più nessuna voce che possa parlare in sua difesa (e non è forse così casuale che nel corso del film Storaro sia chiamato sempre e solo con il nome proprio Vittorio). Mentre la vita narrata di Schneider scivola via senza lasciare troppa traccia di sé si avverte la sensazione di assistere a un triplice vilipendio di cadavere, verso Marlon Brando – che è comunque colui che esce con maggior signorilità dalla rappresentazione, anche se Matt Dillon non è folgorante come in altre occasioni –, verso Bernardo Bertolucci, e soprattutto verso Maria Schneider, limitata a “vittima”, e non compresa come artista dal film che dovrebbe elogiarla. Distonie di un’epoca reazionaria, semplicistica, che preferisce la luce diretta al chiaroscuro.

Info
Maria sul sito del Festival di Cannes.

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