La bocca dell’anima

La bocca dell’anima

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Presentato al Taormina Film Festival 2024, La bocca dell’anima rappresenta l’esordio al lungometraggio per Giuseppe Carleo, un’immersione in una Sicilia ancestrale, in un remoto villaggio sui monti coperto dalla neve o avvolto nella nebbia, dove sopravvivono antiche pratiche taumaturgiche, tra i poteri forti rappresentati da chiesa e mafia.

1949: Odissea in Sicilia

Reduce di guerra rimasto gravemente traumatizzato dal conflitto, Giovanni torna a vivere nel paesino natio, nascosto fra le montagne della Sicilia. Una vecchia maara gli insegna l’arte della magia. Il novello mago, però, dovrà scontrarsi con il potere clericale e con quello mafioso, che lo spingeranno a rinnegare le proprie capacità spirituali. [sinossi]

C’è un cinema italiano, marginale, che scava nell’antropologia, nel ventre etnologico profondo di vari popoli della penisola. Ne fanno parte, per esempio, autori come Laura Samani o Giovanni Columbu. In questo solco è l’esordio al lungometraggio di Giuseppe Carleo, La bocca dell’anima, presentato al 70° Taormina Film Festival, nella sezione Officina Sicilia, nell’ambito della collaborazione con Efebo d’Oro Film Festival. Il film è ambientato nel primo dopoguerra, per la precisione nel 1949, in un borgo montano delle Madonie, Petrasanta (un luogo fittizio) e segue il reinserimento sociale di un reduce di guerra, Giovanni, personaggio inquieto, taciturno, evidentemente turbato da traumi bellici. Il protagonista, incappucciato e con una folta barba, approda, stremato, nella piazza della cittadina, stretta nella morsa della neve e del vento, nella prima scena del film. Una Sicilia estrema, interna, lontanissima dal paesaggio mediterraneo. Una sorta di Narayama sicula, e il paragone con il celebre film di Imamura non riguarda solo il paesaggio innevato iniziale quanto un substrato antropologico profondo che permea entrambe le opere. Giuseppe Carleo si rifà espressamente ai testi di Elsa Guggino, studiosa delle credenze magiche popolari ma anche a un lavoro di ricerca diretto sugli ultimi guaritori magici ancora attivi.

Giovanni si reinserirà, apparentemente, in quella comunità, con il beneplacito del parroco, del sindaco e del capomafia locale. La Sicilia del film è quella in cui sopravvivono credenze primordiali ma anche quella del dopoguerra, con la mafia che prende il potere, nella forma delle confraternite, legittimata dall’aiuto agli Alleati per lo sbarco in Sicilia, e sostiene il latifondismo contro le rivendicazioni sindacali dei braccianti. Due anni prima c’è stata la strage di Portella della Ginestra. Quando si adombra la possibilità che la famiglia del sindaco sia stata colpita dal malocchio, la moglie dà subito la colpa a «quei senzadio dei comunisti». Nel suo percorso, Giovanni incrocia un’anziana maara, che gli trasferisce il potere magico, come la Forza tra i cavalieri Jedi, e che individua quella presenza che il protagonista si porta nel cuore, quella del soldato, Enrico Marchese, che aveva fatto la guerra con lui a Pantelleria. Ed è proprio questa entità spirituale alla base del potere di guaritore di Giovanni, che posiziona un suo ritratto nella stanza in cui deve compiere il rito. Come un ritratto di Dorian Gray che mantiene giovane il volto di quel marinaio bellissimo, dalla tipica divisa bianca, un angelo, sotto il cui sguardo avvengono i miracoli di guarigione. Giovanni nel frattempo si sposa e concepisce un figlio, sotto la pressione sociale della comunità.

Il lavoro filologico ed etnografico de La bocca dell’anima è molto accurato. Oltre ai paesaggi dell’entroterra siciliano profondo, la storia è immersa in un paesaggio sonoro. Ci sono i musicisti della barberia, nel solco di un’antica tradizione, che accompagnano la metamorfosi di Giovanni da barbuto relitto di guerra nel suo reinserimento sociale, pulito e imberbe; ci sono i Lamenti della Settimana Santa di Mussomeli, eseguiti dalla locale Arciconfraternita del SS. Sacramento, canti polifonici in latino maccheronico che ricordano i canti corali sardi; c’è la preghiera del Rosario, canto monofonico eseguito dalle donne di Ventimiglia di Sicilia. Tutta questa accuratezza etnologica non è comunque fine a sé stessa ma rappresenta come un teatro dove si mette in scena un crogiolo di storie archetipiche, vecchie e nuove, dell’umanità e del cinema. Dall’Odissea – nel ritorno di Giovanni dalla guerra ma anche in quella scena della grotta di sale, come l’antro di Polifemo, spiati da un grande occhio – a L’esorcista. Ma anche echi da L’uomo che ho ucciso di Lubitsch, il ricordo bellico di un soldato, e ancora di più nel remake di Ozon, Frantz, per quella tensione omoerotica verso il militare, qui un marinaio in divisa che potrebbe essere uscito da Querelle o da una coreografia di Jacques Demy. Giovanni è come Emilia del pasoliniano Teorema, la cui purezza spirituale, anche conseguenza dell’incontro con un angelo, lo rende depositario di poteri mistici. Il flashback finale dovrebbe fungere da chiarimento narrativo. Giovanni ed Enrico che fluttuano nudi nelle limpide acque di Pantelleria. Un probabile amore gay – il film rimane nel vago -, una libertà perduta in quell’iperuranio, e soffocata dalle obbligazioni sociali, il matrimonio, la paternità, di quell’entroterra siciliano dell’approdo, aspro e senza vie di fuga.

Info
La bocca dell’anima, il trailer.

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