Ainda estou aqui

Ainda estou aqui

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Il cinema di Walter Salles trova un nuovo inaspettato vigore con Ainda estou aqui (I’m Still Here), volgendo lo sguardo indietro, al Brasile dell’inizio degli anni ’70 segnato dalla dittatura militare e dai suoi subdoli e al tempo stesso concretissimi atti di coercizione sugli individui. Un ritratto familiare vibrante, una ricostruzione d’ambiente che restituisce il fermento culturale dell’epoca, un gruppo di personaggi ben delineati su cui si staglia la figura dignitosa di Eunice, madre e moglie alla ricerca della verità.

Sopravvivere al lutto della Storia

Rio De Janeiro, 1970. L’ex-deputato del PTB Rubens Paiva vive con sua moglie Eunice e i cinque figli. Il colpo di stato di sei anni prima ha segnato la fine della sua vita politica. Eunice teme per l’incolumità della figlia maggiore Veronica, che partecipa attivamente ai movimenti studenteschi contro la dittatura militare. Un giorno Rubens viene prelevato dalle autorità per un interrogatorio e non fa più ritorno. Eunice comincia la sua battaglia solitaria per conoscere la verità, cercando allo stesso tempo di mantenere unita la propria famiglia. [sinossi]

Ainda estou aqui (I’m Still Here) è un film che, in prima battuta, funziona egregiamente come pura macchina del tempo. Fin dall’incipit marino, con la macchina da presa che subito dopo una ripresa a pelo d’acqua ci trasporta su una brulicante spiaggia della Rio De Janeiro del 1970, l’opera di Salles esibisce una marcata qualità ontologica tale da farci percepire odori, suoni e colori della metropoli brasiliana all’inizio del decennio, colta in un momento fondamentale della propria identità culturale. Un momento di passaggio, di apertura all’Occidente post-sessantottino, da cui vengono mutuati i consumi culturali (il rock, il cinema di Godard e di Antonioni, qui citati in modo esplicito), rielaborati peraltro dalla nuova cultura musicale tropicalista, che vede come principali esponenti nomi quali Os Mutantes, Caetano Veloso e Gilberto Gil (le cui copertine dei dischi fanno bella mostra di sé in alcune scene) e dall’esplosione del cinema novo e del suo contraltare ancora più esplicitamente anti-borghese, il cinema marginal. Nella famiglia Paiva, al centro del racconto, è la primogenita Veronica ad incarnare, con i suoi atteggiamenti ribellistici, lo spirito del cambiamento che investe le nuove generazioni e che spinge la ragazza a recarsi a Londra, a diretto contatto con la controcultura dell’epoca. Ma la giovane è in un certo senso spinta ad allontanarsi dalla madre, Eunice, che è ben consapevole del suo coinvolgimento nel movimento studentesco e sa anche che la figlia ha subìto una perquisizione da parte delle forze di polizia al pari dei suoi amici.

Appare così chiara fin dai primi minuti del film la contrapposizione tra solarità e tenebre che lo innerva: la prima rappresentata dai giochi in spiaggia, dalla luce diffusa delle lunghe giornate estive, dall’armonia che regna tra i Paiva (moglie, marito e cinque figli); le seconde tutte demandate a fugaci ma insistite apparizioni dei convogli dell’esercito per le strade, alle intimidazioni fisiche e psicologiche delle perquisizioni, ad un pervasivo controllo degli individui da parte della Sicurezza Nazionale basato sul principio di legalità autoritaria del regime dei Gorillas. È in tale contesto che Rubens, all’insaputa della moglie, aiuta gli oppositori del fronte dei ribelli, spendendosi anche per far arrivare la corrispondenza dei prigionieri politici alle rispettive famiglie. Lo fa probabilmente per un dovere civico che avverte come insopprimibile, in quanto ex-deputato del partito trabalhista, di centro-sinistra, smantellato dai militari dopo il colpo di stato del 1964. Quando senza preavviso l’uomo viene prelevato da casa sua e condotto in caserma per essere interrogato, il film giunge ad un primo punto di svolta, immediatamente raddoppiato dall’analogo trattamento riservato alla moglie e ad Eliana, la secondogenita, risolto con una prolungata sequenza in cui l’irruzione e il prolungato sostare delle forze dell’ordine nel fino ad allora idillico spazio domestico assume i connotati della più pura suspense. Mentre le due donne vengono rilasciate dopo diversi giorni di detenzione, Rubens scompare nel nulla. È in questa sezione centrale, ambientata nelle segrete stanze del potere, che Ainda estou aqui dispiega la propria requisitoria politica: senza calcare la mano nella rappresentazione della violenza istituzionale, scegliendo tutto sommato di alludere all’orrore piuttosto che mostrarlo direttamente, Salles riesce con efficacia a risarcire, attraverso il dispositivo cinematografico, le vittime della Storia patria. Quando Eunice, dopo alcuni giorni di prigionìa in cui si è resa conto che le persone a lei più vicine sono state schedate e messe sotto osservazione dagli apparati di polizia, viene restituita agli affetti dei figli, lo fa con una consapevolezza politica più viva che in passato, che le consente di fronteggiare l’assenza lancinante del marito e anzi di perseverare nella ricerca della verità.

La macchina da presa di Salles, coadiuvato dalla fotografia molto calda di Adrian Teijido, possiede una consistenza tattile e una mobilità di approccio in grado di creare una prossimità tra lo spettatore e i personaggi, ritratti a distanza ravvicinata. L’ umanità dei caratteri principali è ben incarnata dalle interpretazioni empatiche di Fernanda Torres e, soprattutto, di Selton Mello, perfettamente credibile nel ruolo del padre di famiglia bonario e premuroso nel privato nonché incarnazione, in senso più ampio, di quelle qualità civili e democratiche che il Paese ha ricacciato in posizione minoritaria. La libertà formale e di racconto del film, tenuta sulle corde di una continua tensione per circa due terzi della sua durata, viene in parte ingabbiata da un ultimo atto in cui Salles e gli sceneggiatori Murilo Hauser e Heitor Lorega devono inevitabilmente pagare pegno all’obbligo di un certo didascalismo informativo che consenta di liberare la denuncia insita nel testo di partenza, l’omonimo, autobiografico, libro di Marcello Rubens Paiva, ultimogenito della famiglia, che ripercorre la storia delle omissioni e delle censure governative che hanno impedito per anni che venisse fatta luce sulla sorte del padre. La personale lotta di Eunice perché giustizia sia fatta la porta a gioire per un certificato di morte finalmente rilasciato dal governo brasiliano a distanza di circa venticinque anni dai fatti. In questo esito amaro e paradossale Ainda estou aqui sancisce con profondo disincanto lo scacco di un sistema che può solo risarcire a posteriori i crimini della Storia: il film si pone dunque anche, con cristallina onestà, come un monìto democratico a conclusione di una presidenza, quella di Bolsonaro, che aveva riaperto ferite mai davvero rimarginate con la sua esplicita nostalgia per il ventennale regime militare. Durante i sette anni passati da Salles a creare Ainda estou aqui la vita in Brasile ha virato pericolosamente vicino alla distopia degli anni Settanta, il che ha forse reso ancora più urgente, e giusto, raccontare questa storia.

Info
Ainda estou aqui sul sito della Biennale.

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