Venezia 2024 – Minuto per minuto

Venezia 2024 – Minuto per minuto

Venezia 2024 festeggia le ottantuno edizioni della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, muovendosi nel solco delle idee di festival del direttore Alberto Barbera, per il tredicesimo anno consecutivo (e il sedicesimo in totale) alla guida della kermesse lagunare.

Non cambia la struttura di Venezia 2024, e per i suoi ottantuno anno la Mostra si presenta con la consueta suddivisione delle sezioni: Concorso, Fuori Concorso, Orizzonti, Giornate degli Autori, Settimana Internazionale della Critica, Venezia Immersive. Proveremo come sempre a raccontarvi i pazzi giorni della Mostra. Buona lettura!

Sabato 07 settembre 2024
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21.00
Tutti i premi di Venezia 2024:
Leone d’Oro per il Miglior film: The Room Next Door di Pedro Almodóvar
Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria: Vermiglio di Maura Delpero
Leone d’Argento Premio per la Migliore regia: Brady Corbet per The Brutalist
Coppa Volpi per la Migliore interpretazione femminile: Nicole Kidman in Babygirl di Halina Reijn
Coppa Volpi per la Migliore interpretazione maschile: Vincent Lindon in Jouer avec le feu di Delphine Coulin e Muriel Coulin
Premio per la Miglior sceneggiatura: Murilo Hauser e Heitor Lorega per Ainda estou aqui di Walter Salles
Premio Speciale della Giuria: April di Dea Kulumbegashvili
Premio Marcello Mastroianni a un giovane attore emergente: Paul Kircher nel film Leurs enfants après eux di Ludovic Boukherma e Zoran Boukherma

20.23
Tutti i premi di Orizzonti.
Miglior film: Anul nou care n-a fost di Bogdan Mureanu
Miglior regia: Sarah Friedland per Familiar Touch
Premio Speciale della Giuria: Hemme’nin olduu gunlerden biri di Murat Fratolu
Migliore attrice: Kathleen Chalfant per Familiar Touch di Sarah Friedland
Miglior attore: Francesco Gheghi per Familia di Francesco Costabile
Migliore sceneggiatura: Scandar Copti per Happy Holidays
Miglior Cortometraggio: Who Loves the Sun di Arshia Shakiba

16.23
Da ieri sera molte voci della critica italiana si chiedono come mai Il tempo che ci vuole, nuovo film di Francesca Comencini, non sia stato accolto in concorso. Al di là di questi interrogativi destinati a rimanere senza risposta – ma la composizione di una selezione e la programmazione sono aspetti che andrebbero studiati maggiormente in profondità, almeno laddove possibile, senza fermarsi al mero “bello, doveva andare in concorso” – non c’è dubbio che la figlia di Luigi (lo si cita perché centrale nel discorso del film, storia di un rapporto padre-figlia che è scopertamente autobiografico) abbia qui sfoderato la sua prova registica più convincente e coerente, di grande empatto emotivo e con un buon lavoro di messa in scena. Ottimo il cast, a partire ça va sans dire da Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano. [r.m.]

16.13
La fluidità narrativa, una più equilibrata gestione delle entrate e uscite dei (tanti, forse troppi) personaggi e una coerente medietas tra ambizione e afflato seriale concorrono alla navigazione meno sobbalzante di Horizon: An American Saga – Capitolo 2, che non potrà vantare il convincente e più che promettente incipit fordiano del primo capitolo ma che riesce quantomeno a mettere in mostra una maggiore compattezza. L’impresa resta impossibile, quasi sicuramente fallimentare, ma anche amabilissima. L’ambizione è a suo modo già un successo. Si resta in attesa del terzo e quarto capitolo. [e.a.]

14.00
Mentre il Lido si svuota, a causa dello sciopero generale dei treni di domani, torniamo con la mente a ieri pomeriggio, quando in sala Grande è stato proiettato Broken Rage, il ventesimo film per il cinema del grandissimo Takeshi Kitano. Di brevissima durata, appena un’ora, e diviso in due segmenti di 29 minuti ciascuno più epilogo, Broken Rage è un puro distillato di genio, con lo yakuza eiga di cui è uno dei cantori indiscussi che viene riletto dapprima in chiave semiseria e poi sprofondando nella pura farsa, con riferimenti al manzai e al cinema dei primordi. Spassoso, lancinante, con idee e trovate ultra-demenziali, il film è un’opera sublime, che corre il rischio di non essere fino in fondo compresa da chi nel cinema scambia come sinonimi “serietà” e “seriosità”. [r.m.]

Venerdì 06 settembre 2024
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19.06
Melodramma medico sul tumore alla prostata, film romantico sulla sessualità libera, ma soprattutto una celebrazione di Oslo e dei suoi abitanti, Love di Dag Johan Haugerud è l’ultimo film ad essere presentato in concorso a Venezia 81. Seguendo gli intrecci lavorativi di un gruppo di personaggi dai ruoli rilevanti nel milieu cittadino, l’oncologa, l’infermiere, il geologo, l’impiegata comunale addetta alla cultura, il film mostra gioie e dolori della vita sullo sfondo di una capitale norvegese bella, libera, accogliente. Secondo capitolo (il precedente era Sex) di una trilogia sui rapporti umani, Love è un film spiazzante, se lo si legge nella chiave – fortemente presente – di promozione- della capitale norvegese, e piacevole se lo si segue come melodramma umano, anche grazie allo sguardo complice e mai moralista sui suoi personaggi del regista. Ma “piacevole” non è esattamente l’aggettivo che si vorrebbe assegnare a un film in concorso a Venezia. [d.p.]

15.16
Croce e delizia del nostro tempo, la videosorveglianza è un tema molto frequentato dal cinema contemporaneo. Dopo il teen movie nipponico Happyend di Neo Sora, presentato in Orizzonti, tocca ora al singaporiano Stranger Eyes di Yeo Siew Hua, in concorso, declinare l’argomento a suo modo. Thriller sul guardare ed essere guardati, Stranger Eyes narra la storia di una giovane coppia alle prese con il rapimento della figlia piccola e con la successiva ricezione di una serie di video che ritraggono entrambi, sia lei che lui (ma soprattutto lui), in comportamenti non proprio irreprensibili. Tra voyeurismo, social network e relativa voglia di apparire, compare nel film di Yeo Siew Hua anche un interessante discorso sulle difficoltà di una genitorialità forse troppo precoce, che però viene poi abbandonato, a favore di una improvvisa virata verso un melodramma lacrimevole fino a quel punto piuttosto trattenuto. [d.p.]

14.27
In attesa di scoprire il titolo vincitore la Settimana Internazionale della Critica si chiude con Little Jaffna (fuori concorso), con cui il francese Lawrence Valin esordisce al lungometraggio: un’opera dinamitarda, che conosce i propri limiti (dettati dall’aderenza spiccata ai codici del genere) e li sfrutta a proprio favore, e di fronte alla quale si ci lascia andare con grande piacere cinematico. [r.m.]

14.00
Terza e ultima parte del progetto Youth di Wang Bing, dal titolo Youth: Homecoming, in concorso a Venezia 81. Si chiude un affresco che tocca il lavoro, i giovani cinesi, con le loro aspettative e i loro problemi. Wang Bing in questa nuova opera fluviale abbraccia temi sociali ed esistenziali, la primavera della vita e le dinamiche del capitalismo. [g.r.]

Giovedì 05 settembre 2024
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20.23
Per raccontare una fase della latitanza del boss Matteo Messina Denaro, Fabio Grassadonia e Antonio Piazza in Iddu fanno affidamento sui loro due interpreti principali: Elio Germano, nei panni del malavitoso, e Toni Servillo in quelli del suo padrino di battesimo armeggione. Alternando rigorosamente scene con Germano a scene con Servillo, e dunque dramma mafioso e commedia grottesca, il film procede con un rigido schema a montaggio alternato, e la cura per le immagini non riesce a mascherare l’assenza di un qualcosa da dire su quanto raccontato. Anche la commistione del mafia movie con altri generi cinematografici, caratteristica della filmografia dei due autori (Salvo, Sicilian Ghost Story), appare stavolta poco coraggiosa e schematica, contribuisce solo a far rimpiangere il cinema d’impegno politico dei bei tempi andati. In concorso. [d.p.]

18.40
Una giovane donna e il marito suonano al campanello della dirimpettaia – una libraia single di mezza età incarnata da Valeria Bruni Tedeschi – per depositare lì un bambino di circa 5 anni: si sono rotte le acque e devono correre in ospedale. Questo è l’incipit di L’attachement della regista francese Carine Tardieu, presentato a Venezia 81 in Orizzonti. La partoriente non farà mai ritorno e si innescheranno una serie di amori che comprenderanno la libraia occhialuta e spettinata di cui sopra, il tenero vedovo, il padre del bambino 5enne, la pediatra, in una farsa amorosa rocambolesca, ma esile e piena di cliché. Tutti vanno a letto con tutti in L’attachement che, scandito dai mesi di crescita della bambina appena nata, inneggia all’amore, alle famiglie allargate e soprattutto ai bambini. Insomma, c’è tutto quello che ci si aspetterebbe da un film francese sugli affetti, e niente di più. [d.p.]

16.30
Potrebbe facilmente irretire una giuria April, l’opera seconda della georgiana Dea Kulumbegashvili che ragiona attorno al tema dell’aborto illegale, e del ruolo della donna nella società. Lo fa infatti con sguardo rigoroso, ieratico, che non ha timore dei tempi lunghi, e che sembra perfettamente in linea con una certa tendenza dell’arthouse contemporaneo. Scelte rigorose ma – in ambito festivaliero – anche abbastanza semplici, forse persino “furbe”, con un forte sentore di maniera che non riesce a convincere, e un retrogusto paradossalmente quasi misogino. [r.m.]

15.13
Ultimo film presentato in concorso all’interno della Settimana Internazionale della Critica Moattar Binanaa (vale a dire Perfumed with Mint secondo il titolo pensato per la vendita internazionale) segna l’esordio alla regia dell’egiziano Muhammed Hamdy. Un film ipnotico, fantasmatico, profondamente onirico che attraverso il rifugio in una logica non razionale cerca le traiettorie per raccontare una nazione dal cuore sempre più nero. Non sempre l’ispirazione regge il peso dell’ambizione, ma è un’opera prima da maneggiare con grande cura. [r.m.]

08.58
Jouer avec le feu delle sorelle Delphine e Muriel Coulin è un tenebroso dramma familiare ambientato nella provincia francese, a Metz, che proprio da questa decentralità prende spunto per ragionare sulle tentazioni xenofobe e reazionarie che si annidano nella società contemporanea, non solo in Francia ma nell’Europa tutta. Un padre e due figli, il minore avviato a un brillante percorso studentesco, il secondo invece alla deriva, tentato da cattive compagnie sulla strada del neofascismo squadrista. Qualche schematismo forse nel disegno dei personaggi ma anche la solita prova maiuscola di Vincent Lindon e un’interessante costruzione narrativa ellittica che espunge la retorica dal dramma. In concorso. [a.p.]

08.47
Nuova operazione cinematografica sul mondo del porno, Diva Futura di Giulia Steigerwalt ci fa tornare al mondo glamour della pornografia italiana degli anni Ottanta e a quel grande guru che è stato Riccardo Schicchi con la sua agenzia Diva Futura. Il punto di forza del film è lo sguardo inedito della giornalista Debora Attanasio, che fu segretaria dell’agenzia e dal cui libro di memorie il film è tratto. Ne esce un ritratto di uno Schicchi un po’ mattacchione, a tratti edulcorato ma meravigliosamente reso da Pietro Castellitto. Nel complesso un ottimo prodotto Netflix, ma è lecito chiedersi cosa ci faccia in concorso alla Mostra di Venezia. [g.r.]

Mercoledì 04 settembre 2024
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23.30
Quasi costretto a cavalcare l’inatteso trionfo di Joker, Todd Phillips abbandona i placidi lidi scorsesiani e si avventura in un sequel rischiosissimo, armato della suggestiva idea della sterzata musical e della presenza della trasformista Lady Gaga – che, sì, è un’ottima quanto depotenziata Harley Quinn. Se Joaquin Phoenix è perfettamente calato nel classico ruolo di una vita e Lady Gaga ha fascino da vendere, se alcune sequenze indubbiamente funzionano (ad esempio, quella in studio sulle note dell’intramontabile To Love Somebody) e le potenzialità narrative non mancano, Joker: Folie à Deux finisce per girare a vuoto, appesantito dalla lunga e ridondante parte processuale (con eterno ritorno di temi e personaggi nel primo capitolo) e da un’impasse via via sempre più evidente. Più che un passo a due, due passi indietro. [e.a.]

17.41
Ha spiazzato non poco i cultori del cinema del grande teorico rumeno Andrei Ujică la visione di TWST – Things We Said Today; ancora una volta alle prese con materiale di repertorio – come già accaduto in titoli imprescindibili dell’ultimo trentennio quali Nicolae Ceausescu: un’autobiografia, Out of the Present, o Videogramme einer Revolution, quest’ultimo in co-regia con il compianto Haroun Farocki – stavolta il regista nativo di Timișoara decide di rompere con l’idea di eliminazione dell’archivio scrivendovi al contrario sopra, immaginando svolazzi poetici. Il tutto parte – e arriva – con l’approdo newyorchese dei Beatles nel 1965, per poi dirazzare verso i tumulti di Watts a Los Angeles e i sogni/desideri di una generazione che sarebbe poi stata spazzata via del riflusso. Affascinante. [r.m.]

17.00
Il cinema inesorabile di Fabrice Du Welz ci mette di fronte al Male, al lato oscuro di una nazione (e non solo), a una ferita sociale che non si può rimarginare. E all’ossessione della verità, della giustizia, alla ricerca disperata di un riscatto irraggiungibile. Ispirato al caso del Mostro di Marcinelle, Maldoror è un poliziesco a tinte orrorifiche che trasuda malessere, una sorta di versione brutta, sporca e cattiva di Zodiac. Le Plat Pays ne esce inevitabilmente malissimo, mentre il film di Du Welz, pur fuori concorso, trova forse la giusta e più che meritata visibilità. [e.a.]

16.06
Paul & Paulette Take a Bath del quarantaseienne cineasta anglo-francese Jethro Massey è un esordio squinternato, brillante, di grande intelligenza e profonda cinefilia; un lavoro che si intesse alla perfezione nel percorso che quest’anno ha voluto compiere la Settimana Internazionale della Critica, sezione che sta dimostrando come la vitalità sia ancora possibile rintracciarla nel cinema contemporaneo. Basta volerla cercare. [r.m.]

15.30
Con Finalement l’ottuagenario Claude Lelouch presenta Fuori concorso a Venezia 81 una commedia musicale romantica e sgangherata. Protagonista e mattatore assoluto della scena è un ottimo Kad Merad nei panni di Lino, un uomo di mezza età affetto da una degenerazione fronto-temporale che lo rende obbligatoriamente sincero e dunque anche un po’ folle. Lasciatosi alle spalle la sua famiglia borghese, Lino vaga per il nord della Francia facendo l’autostop e raccontandosi a degli sconosciuti ora come prete spretato erotomane, ora come regista di film porno, infine come avvocato. Ma è è proprio quando il personaggio inizia a vestire soltanto questo ruolo, con l’emergere di un dramma processuale e delle diatribe familiari, che Finalement diventa meno folle e più borghese. Resta comunque il piacere di una visione spesso imprevedibile e inventiva, dotata di graziose canzoni – un po’ demenziali – come la hit “Storia di un pianoforte e di una trombetta”. [d.p.]

Martedì 03 settembre 2024
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16.28
Tra le visioni del concorso della Settimana Internazionale della Critica oggi ci si imbatte nel vietnamita Don’t Cry, Butterfly, diretto dalla trentaquattrenne Dương Diệu Linh: un lavoro sull’incomunicabilità – resa anche attraverso il silenzio – che mostra tante ottime intenzioni ma anche una fragilità strutturale che non permette mai al racconto di elevarsi al di sopra della sua mera rappresentazione. Un esordio con lampi interessanti ma a cui viene un po’ a mancare il respiro. [r.m.]

16.11
Massimo D’Anolfi e Martina Parenti rappresentano a loro modo una anomalia all’interno dello scenario cinematografico italiano, e ci tengono a ribadirlo anche con il fluviale Bestiari, Erbari, Lapidari, documento tripartito che parte dall’apparente questione compilativa per elevarsi a riflessione ontologica e universale sull’umano, la sua (r)esistenza, la sua piccolezza di fronte alle cose del mondo. Visione ostica, ma ardua da dimenticare. [r.m.]

16.00
La cinquattottenne Athina Rachel Tsangari torna a Venezia a quattordici anni di distanza da Attenberg e si ritrova a girare un film in lingua inglese a ben ventiquattro anni dall’esordio The Slow Business of Going: l’occasione è concessa dal suo quarto lungometraggio da regista, Harvest, tratto con non poche libertà dal romanzo di Jim Crace. Peccato che questo racconto del momento di passaggio tra due momenti della vita sociale economica – la società rurale contro lo sfruttamento più sistematico del terreno e dell’allevamento – si perda ben presto dietro estetismi anche eleganti ma poco funzionali, e una scarsa volontà di scendere al di sotto della pura epidermide. Un’occasione sprecata, così come il buon cast dominato dal sempre magnetico Caleb Landry Jones, qui però più monocorde del solito. [r.m.]

00.08
Con Phantosmia, fuori concorso a Venezia 81, Lav Diaz torna a ragionare sul tema della bellezza che accoglie il male, ovvero l’isola di Pulo, ricoperta da una vegetazione a mangrovie e sede di una colonia penale e teatro di rivolte represse nel sangue. Torna a un film-lamento sulla storia martoriata delle Filippine, qui rappresentate dalla figura di Reyna, una ragazza costretta alla prostituzione, venduta a ogni offerente. E ragiona anche sul male dal suo interno, assumendo il punto di vista delle forze militari al servizio della dittatura. Questo nella figura del sergente Hilarion Zabala, anziano militare che viene sottoposto a una curiosa terapia psicologica per curare il suo disturbo: viene fatto rientrare nell’esercito in modo che possa rivivere la sua carriera militare, fatta di repressioni violente a tutela del regime. Così Lav Diaz collega il passato al presente: quelle forze oscure che hanno governato col pugno di ferro sono ancora al potere. [g.r.]


Lunedì 02 settembre 2024
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19.30
Presentato ieri a Venezia Classici nella sezione documentari sul cinema, From Darkness to Light ricostruisce la genesi, la disfatta e la scomparsa del film di Jerry Lewis, The Day the Clown Cried, la storia di un clown che si ritrovava in un campo di concentramento nazista e che il regista americano nel 1972 non riuscì a finire per tutta una serie di contrattempi, tra fughe di produttori, diritti di sfruttamento non pagati e poi, a posteriori, anche le incertezze dello stesso Jerry Lewis, che si convinse – a quanto abbiamo potuto vedere a torto – di non essere riuscito a fare un gran film. Ed è questo l’unico grande merito di From Darkness to Light, diretto maldestramente da Michael Lurie e Eric Friedler, permetterci cioè di vedere larghi estratti di The Day the Clown Cried, e facendoci così apprezzare per la prima volta quello che poteva essere – e, a nostro avviso, probabilmente è – uno dei film più importanti della storia del cinema, o quantomeno del cinema legato alla vicenda della Shoah, visto che arriva a immaginare l’atroce destino di un clown costretto dai nazisti ad accompagnare una sessantina di bambini ebrei all’interno di una camera a gas, con un’ultima inquadratura agghiacciante e tenerissima.
The Day the Clown Cried, secondo accordi presi da Jerry Lewis prima della sua morte, dovrebbe poter essere disponibile a partire dal prossimo anno, e forse la mossa di Venezia di mostrare questo documentario può essere letta anche nell’ottica di poter avere la possibilità di mostrare l’anno prossimo il film in anteprima mondiale, come già successo in tempi recenti per The Other Side of the Wind e per HOPPER/WELLES. [a.a.]

19.25
Una riflessione sulla morte sotto forma di messinscena noir, per due narratrici in cerca di una pacificazione, con se stesse e il proprio passato. In La stanza accanto (The Room Next Door), in concorso a Venezia 81, Pedro Almodòvar riprende la sua personale riflessione sul fine vita, che era già al centro di Dolor y gloria (lì insieme alla sua crisi personale e creativa), ma lo fa trasferendo le sue paure su due personaggi femminili: la scrittrice Ingrid (Julianne Moore) e la reporter di guerra Martha (Tilda Swinton). Quest’ultima, scoperto di avere un tumore terminale, chiede all’amica di essere presente, ma nella stanza accanto, mentre lei pone termine alla sua esistenza terrena. Trasferitesi in “vacanza” fuori città per portare a compimento questo progetto, le due donne convivono e si confrontano sulle proprie esperienze di vita e i relativi errori, mentre prende forma la messinscena, orchestrata da Martha, della propria morte. Tra geometrie architettoniche, colori primari che esplodono sullo schermo, numerose citazioni pittoriche, letterarie e cinematografiche (da Hopper a Wyeth, da Viaggio in Italia a Gente di Dublino) il film di Almodovar – la cui crisi creativa pare decisamente rientrata – mira a ricordarci, e noi cinefili lo sappiamo bene, che basta aggiungere un po’ di finzione e tutto diventa più accettabile, anche la morte. [d.p.]

17.55
Presentato tra i documentari di Venezia Classici, Miyazaki, l’esprit de la nature di Leo Favier non rinuncia purtroppo alle (troppe) teste parlanti e getta al vento buona parte delle sue non poche potenzialità, creando una frizione evidente tra la parte di film-saggio (l’afflato ambientalista della poetica miyazakiana) e le testimonianze pur autorevoli dei vari Philippe Descola, Timothy Morton, Susan Napier e via discorrendo. Un peccato, perché le sequenze dei film di Miyazaki concesse dallo Studio Ghibli sono ovviamente strepitose, ben contestualizzate e affiancate da ottimo materiale di repertorio. [e.a.]

16.48
Il nome di Neo Sora, trentatreenne regista di New York, con ogni probabilità non dirà molto a nessuno, e dopotutto il bel Happyend – presentato nel concorso di Orizzonti – è la sua opera prima nel campo della “finzione” cinematografica. Forse sapere che si tratta del quarto e ultimo figlio di Ryūichi Sakamoto attirerebbe di più l’attenzione mediatica, ma la verità è che Sora non merita di essere ridotto a “figlio di”, visto che firma un teen movie delicato, dirompente, di grande vitalità e al contempo mestizia – la nostalgia del tempo che passa inafferrabile. Ottimo il cast di giovanissimi, accurata la regia che per certi versi fa tornare alla mente lo straordinario Linda Linda Linda, e la netta impressione di essersi imbattuti in un autore che saprà dire la sua anche in futuro (e dopotutto il film è ambientato tra qualche anno, e denuncia una possibile deriva fascistoide del sistema scolastico giapponese). [r.m.]

16.45
La quarantottenne Maura Delpero torna alla regia con Vermiglio a distanza di cinque anni da Maternal, che ottenne la menzione speciale della giuria al festival di Locarno. Qui l’ambizione cresce, nel racconto riuscito del mondo rurale nella Val di Sole, e nel paesotto che dà il titolo al film: ritmi olmiani, una contemplazione della natura che diventa studio riflessivo dell’animo umano, dei suoi turbamenti, dell’insoddisfazione che segna ogni esistenza. Restando nell’ambientazione bellica – anche se qui si tratta del secondo conflitto mondiale – assai più riuscito di Campo di battaglia di Gianni Amelio, visto ieri sempe in concorso. [r.m.]

16.05
Prosegue quotidianamente il concorso della Settimana Internazionale della Critica, e oggi è toccato a No Sleep Still, con cui esordisce alla regia la statunitense Alexandra Simpson. Un coming-of-age esistenziale, apocalittico e (dis)integrato, con qualche fragilità ma denso e sincero. [r.m.]

15.30
Come Faust di Sokurov o The Tree of Life di Malick, ci sono film che hanno un effetto dirompente all’interno di un concorso, anche quando si tratta di Venezia o Cannes. Opere-mondo che colmano di senso lo schermo, la sala, la visione. Tra queste, non numerosissime, ci sembra di poter annoverare senza troppi ripensamenti anche la terza fragorosa regia di Brady Corbet, The Brutalist, pellicola dalla grandeur straripante, fuori tempo e fuori norma. Girato in VistaVision (70 mm un po’ indigesti per le sale veneziane), il film rispecchia perfettamente l’ambizione che già traspariva nei due precedenti lavori, L’infanzia di un capo e Vox Lux, qui portata alle estreme conseguenze estetiche e narrative. Una poetica brutalista quella di Corbet, capace di erigere strutture portentose e poi, improvvisamente, di andare dritto al punto con vertiginosi detour. Un film wellesiano, una riflessione sull’arte (anche la propria), sull’ambizione, sul potere e le sue degenerazioni. Una chiusura, forse una pietra tombale, sul Secolo breve de L’infanzia di un capo, sull’Età della catastrofe. [e.a.]

14.30
Decisamente a proprio agio nei meccanismi produttivi, narrativi ed estetici della Hollywood spudoratamente più mainstream, Jon Watts firma una commedia che è anche un po’ un thriller a uso e consumo dei due divi divini George Clooney e Brad Pitt, ovviamente anche produttori. L’unica nota davvero lieta di Wolfs – Lupi solitari, film che viaggia per tutti il tempo lungo binari eccessivamente prevedibili, è la vivace performance di Austin Abrams (altra stellina di Euphoria), mentre i sempreverdi Clooney e Pitt gigioneggiano senza riuscire ad alzare l’asticella di un buddy movie simpatico ma soprattutto superfluo. [e.a.]

Domenica 01 settembre 2024
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20.34
In Orizzonti Extra si parla corso stasera: curioso esperimento di western contemporaneo che sfrutta gli ambienti montani dell’isola francese Le mohican segna il ritorno alla regia di Frédéric Farrucci a cinque anni di distanza da La nuit venue e si segnala soprattutto per l’interessante scrittura e per il personaggio principale, interpretato dall’ottimo Alexis Manenti, volto tra i più rilevanti del cinema transalpino contemporaneo (solo nell’ultimo biennio tra gli altri Le ravissement, Athena, Gli indesiderabili, e Diamant brut). Peccato per una regia che non regge il peso delle proprie ambizioni, ma il film ha un ritmo serrato e arriva dritto al punto senza perdersi in tanti ghirigori autoriali. [r.m.]

19.02
Con To Kill a Mongolian Horse, alle Giornate degli Autori, la filmmaker Xiaoxuan Jiang, al suo esordio al lungometraggio, firma il ritratto sentito di un mondo al tramonto, quello dei mandriani delle steppe della Mongolia Interna. Non solo il cambiamento climatico minaccia la loro esistenza, ma anche l’avanzare delle attività industriali e minerarie e lo sviluppo di un turismo cinese becero e arrogante. Un racconto di tristezza dietro lo sfondo di paesaggi mozzafiato. [g.r.]

18.26
Oggi è stato il giorno dell’italiano della SIC, vale a dire il momento in cui alla Settimana Internazionale della Critica viene presentato in concorso il titolo di produzione nazionale: si tratta per l’occasione di Anywhere Anytime, opera prima dell’iraniano Milan Tangshir che da oramai quasi tre lustri vive in Italia. Sorta di rivisitazione – senza voler incorrere nel paragone, ovviamente, che sarebbe tutto a suo svantaggio – di Ladri di biciclette, questo crudo racconto di realtà migrante in quel di Torino colpisce il bersaglio, nonostante qualche debolezza espositiva e un meccanismo narrativo che a tratti si fa un po’ usurato. Pecche minime, in ogni caso, per un’operazione estetico-produttiva per niente banale, e da maneggiare con estrema cura. [r.m.]

18.17
Con Ainda estou aqui (I’m Still Here) il cinema di Walter Salles trova un nuovo, inaspettato vigore, volgendo lo sguardo indietro, al Brasile dell’inizio degli anni ‘70 segnato dalla dittatura militare e dai suoi subdoli e al tempo stesso concretissimi atti di coercizione sugli individui. Salles si concentra sul ritratto di una nutrita famiglia alto-borghese di Rio de Janeiro, isolandone progressivamente la figura di Eunice, madre e moglie alla ricerca della verità sulla scomparsa del coniuge, sospettato di fiancheggiare la sinistra rivoluzionaria. Il ritratto familiare è vibrante, la ricostruzione d’epoca restituisce il fermento culturale dell’epoca, i personaggi sono ben delineati. Solo sul finale si affaccia un certo didascalismo ma probabilmente non si poteva fare altrimenti. [a.p.]

13.03
Che bello sapere che esistono ancora folli anarchici come Harmony Korine. Ieri notte il pubblico e gli accreditati hanno invaso la sala Grande per la proiezione ufficiale di Baby Invasion, nuova folle creatura partorita dal cineasta statunitense, che ipotizza un videogioco non terminato e ancora pieno di glitch rintracciato nel dark web. Un’opera lisergica, quasi installativa ma che ridefinisce una volta di più i confini del cinema come atto teorico ma al contempo ludico. Devastante, forse insostenibile, sicuramente inimitabile. [r.m.]

12.07
Ispirandosi al grande cinema del passato, dal poliziesco di Friedkin al dramma umano e violento di Cimino (esplicito il riferimento a Il cacciatore) il regista australiano Justin Kurzel (Macbeth, Snowtown) mira a realizzare un grande classico con The Order. Un classico con radici ben piantate, sia nella storia recente che nel presente degli Stati Uniti, dato che affronta la vicenda del suprematista bianco Robert Matthews e della sua setta (chiamata, appunto, The Order), che negli anni ‘80 imperversò nei territori del Nord Ovest statunitense, compiendo omicidi, rapide, attentati dinamitardi, allo scopo di destabilizzare e in prospettiva annientare lo stato democratico. Con le elezioni americane alle porte, la paura delle cospirazioni del gruppo di estrema destra QAnon e il ricordo dell’attacco al Campidoglio del 2021, il film di Kurzel si colloca nel concorso di Venezia 81 come monito e intrattenimento, con esiti piuttosto convincenti. Ottima è la performance di uno stropicciato Jude Law, nei panni dell’agente dell’FBI sulle tracce della setta e del suo leader. Peccato per quei dialoghi non sempre convincenti, e per quel personaggio della collega detective, appiattito sul ruolo di rimbrottante grillo parlante. [d.p.]

08.53
Torniamo con la mente a ieri: in serata in sala Grande è stato proiettato Campo di battaglia, quattordicesimo lungometraggio per il cinema del settantanovenne Gianni Amelio, che si confronta con i traumi della prima guerra mondiale ispirandosi in maniera libera al romanzo La sfida di Carlo Patriarca. Qualche bella suggestione registica e di scenografia rendono affascinante l’incipit, ma il film progressivamente si sfilaccia, perdendo in senso e capacità di narrazione. E la scelta di mettere in campo riflessioni contemporanee sul conflitto ma anche sulla pandemia (la seconda parte del film si concentra sul diffondersi della “Spagnola”) si rivela debole, o almeno non abbastanza pregnante. [r.m.]

Sabato 31 agosto 2024
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18.35
La scelta di Samedi soir sur la Terre di Francis Cabrel per il lento – finalmente – ballato da Anthony e Steph, coppia evidentemente bellissima di un amour fou (o ouf) tipicamente francese, è l’emblema di una playlist fin troppo perfettina. Un collante furbetto ma sagace che a suo modo cerca di dettare i tempi di un film, Leurs enfants après eux di Ludovic e Zoran Boukherma, programmaticamente slabbrato, fluviale, nipotino illegittimo dei melodrammi familiari statunitensi degli anni Cinquanta. Ci sono i Red Hot Chili Peppers, ovviamente Springsteen, c’è lo scontro generazionale, la provincia industriale e abbandonata, la differenza di classe, i destini già scritti, il subbuglio dell’immigrazione. Tanto, troppo? Forse sì, ma c’è freschezza, vitalità, uno sguardo ampio e non banale sugli anni Novanta. We’ll run ‘til we drop, baby, we’ll never go back… [e.a.]

18.11
Con il piglio disperato di chi ha urgenza di mostrare la propria incredulità di fronte a un nuovo ennesimo conflitto tra israeliani e palestinesi, scoppiato dopo i fatti del 7 ottobre dello scorso anno, Amos Gitai realizza Why War, presentato fuori concorso. Ma il suo film è l’esatto opposto dell’instant movie, tentazione cui si potrebbe cedere per cercare di stare il più possibile addosso alla tragica cronaca di questi mesi. Rielaborando e addirittura mettendo in scena il celebre carteggio tra Einstein e Freud, Why War cerca piuttosto di astrarre, di guardare al più ampio concetto di guerra insita nella mente stessa dell’umano e nei gangli più profondi di cui è costituita la società. Ne nasce un film molto concettuale e simbolico, chiuso in blocchi che si susseguono e che dialogano in maniera solo indiretta tra di loro, ma è soprattutto la potenza e la disperata vitalità e audacia del gesto che si apprezza. Non ci sono risposte sul perché la guerra, la domanda però bisogna continuare a porsela incessantemente. [a.a.]

17.07
C’è un cuore autoriale che batte nel cuore dell’Europa centrale – e nordica – e che ha l’immagine del rigore, della nettezza, e della impassibilità del racconto. Rientra in questa categoria anche Peacock, l’ottimo esordio alla regia del trentaduenne Bernhard Wenger che ha illuminato lo schermo della sala Perla, ospitato nel concorso della Settimana Internazionale della Critica. Un lavoro umanissimo e all’apparenza gelido che trae la sua forza proprio da tale dialettica. Ottime chance di premio, anche in vista del Leone del Futuro. [r.m.]

00.00
A sessantanove anni e con oltre quaranta lungometraggi alle spalle Kiyoshi Kurosawa si lancia con Cloud in un’operazione di revisione e summa del suo intero lavoro (a partire dalla riflessione sull’utilizzo del digitale che già agitava vent’anni fa le acque di Pulse), spaziando con libertà invidiabile tra i generi per una riflessione – non nuova nella filmografia del cineasta giapponese – sulla morale, sulla vendetta, e sull’impossibilità di una “reale” redenzione. Un lavoro divertente, tutt’altro che banale, che gioca sui cliché a volte addirittura in maniera troppo evidente, ma che sa lasciare in profondità il segno del proprio passaggio. [r.m.]

Venerdì 30 agosto 2024
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22.50
Nuovo lavoro di Cláudia Varejão, dopo il film di fiction Lobo e Cão, Kora è un cortometraggio presentato alle Giornate degli Autori, dove si incontrano le storie di donne rifugiate in un flusso di coscienza, di esperienze, testimonianze, traumi. Un viaggio anche visivo in una complessa tessitura in bianco e nero, fatta di dettagli e immagini interne. [g.r.]

21.30
In concorso è arrivato anche il momento di Trois amies, il nuovo film di Emmanuel Mouret (Una relazione passeggera) che guarda con insistenza dalle parti del Woody Allen corale di Hannah e le sue sorelle – anche per la presenza di tre personaggi femminili centrali – senza ovviamente dimenticare di omaggiare anche il cinema di Éric Rohmer. Per quanto i paragoni siano difficili da mantenere questa commedia agrodolce coglie spesso il bersaglio, grazie a uno stuolo di eccellenti interpreti (Camille Cottin, Vincent Macaigne, Sara Forestier, India Hair, Damien Bonnard, Grégoire Ludig) e alla regia pulita di Mouret, anche in grado di toccare corde profonde in almeno una sequenza fantasmatica. [r.m.]

19.15
Passereste un periodo della vostra vita in mezzo a persone che credono che l’unica salvezza per gli Stati Uniti d’America sia una decisa svolta verso la destra più estrema e becera? Quale che sia la vostra risposta al quesito ciò è proprio quel che ha fatto Michael Premo, giornalista quarantaduenne che esordisce alla regia con lo scioccante e inquietante Homegrown, ritratto dall’interno del cosmo dei suprematisti bianchi, degli assaltatori di Capitol Hill e chi più ne ha più ne metta. Colpaccio sferrato in pieno volto dalla Settimana della Critica ai suoi spettatori Homegrown è un film che si attacca alle palpebre, e le costringe a non chiudersi mai. Occhi aperti, spalancati, sul baratro. [r.m.]

19.00
Arriva in concorso l’ora dell’atteso Babygirl, il film di Halina Reijn con protagonista Nicole Kidman – ma nel cast ci sono anche Antonio Banderas e Harris Dickinson. Un lavoro che ragiona sui concetti di desiderio e appagamento dello stesso, e di “abuso di potere” nei rapporti interpersonali (soprattutto sul luogo di lavoro), e che inanella qualche intuizione ma anche alcuni scivoloni non da poco che rischiano di sfiorare lo scult. Ne viene fuori un’opera appesa a mezz’aria, senza la forza cinematografica necessaria in grado di innervare un racconto anche interessante ma che risulta così depotenziato, e più prossimo alla buona televisione che al grande schermo. Si poteva forse evitare la collocazione in concorso. [r.m.]

18.49
Si torna con la mente per un momento a ieri, quando il pubblico del Lido si è potuto imbattere in Chain Reactions, nuova creatura del cineasta elvetico Alexandre O. Philippe, che stavolta concentra l’attenzione su un classico dell’horror come The Texas Chain Saw Massacre, vale a dire Non aprite quella porta. Nel cinquantennale della sua realizzazione Philippe invita a parlare del capolavoro di Tobe Hooper l’attore Patton Oswalt, i registi Takashi Miike, Karyn Kusama, la critica cinematografica Alexandra Heller-Nicholas, e il mito della letteratura orrorifica Stephen King. Purtroppo le dichiarazioni sono solo a tratti penetranti e preferiscono rimanere sul superficiale, senza approfondire dunque la lettura di un’opera così rilevante, e la visione viene resa imperdibile solo dal montaggio delle immagini del film stesso, così indimenticabili da perdonare qualsivoglia cicaleccio. [r.m.]

18.24
Presentato fuori concorso, Riefenstahl è un nuovo documentario – perché negli anni ne sono stati fatti già diversi – sulla figura della regista tedesca che raggiunse l’apice della carriera al servizio del Terzo Reich. Diretto da Andres Veiel, il film non nasconde i contributi dei suoi predecessori, e anzi ne fa largo uso – a partire da quello che è forse il più famoso, La forza delle immagini, diretto da Ray Müller nel 1993. Quel che invece viene presentato come nuovo, in un film che è praticamente solo d’archivio, è il fatto che Veiel ha avuto a disposizione l’archivio privato di Leni Riefenstahl, da cui emergono ennesime prove delle sue relazioni con Hitler e Goebbels, ma anche – l’elemento probabilmente di maggior interesse di tutto il film – delle registrazioni telefoniche di ammiratori, fatte dalla stessa Riefenstahl nel corso degli anni, fan sfegatati che la sostengono con fervore ogni volta che le capitava di trovarsi nel mezzo di una qualche polemica in Germania per via del suo passato cosiddetto filo-nazi. Difatti, il dibattito se la Riefenstahl sia stata o meno una convinta nazista, se abbia mai fatto qualcosa contro gli ebrei o se si sia resa conto di quel che succedeva nei campi di sterminio, sembra ormai usurato, visto che è stato scandagliato in lungo e in largo, e non ci pare che ci sia più molto da discutere (una che manda una lettera di felicitazioni a Hitler per congratularsi di aver preso Parigi non lascia a posteriori tanto spazio a dubbi o perplessità su quale fosse la sua parte politica). Quel che, al contrario, colpisce è proprio il sostegno che la regista, ormai pensionata, continuava a ricevere, anchse se solo in privato, in una Germania solo apparentemente denazificata. E, allora, se Veiel dice che il film parla al presente – visto il sempre maggiore peso che hanno le forze quasi-fasciste in Europa – è proprio in questo rapporto oscuro e subdolo tra massa e potere che si può essere d’accordo con l’autore del film, che però non ci sembra che tragga una qualche conseguenza da ciò, e anzi ci pare che continui a rivangare nel passato della Riefenstahl in cerca di una qualche prova provata – “ah! quella volta ha fatto questo a quegli ebrei, o a quei rom…” – di cui sinceramente non si sente il bisogno. [a.a.]

16.45
La vita ci regala poche certezze e una di queste ha le fattezze (del cinema) di Kevin Macdonald, scozzese di nobilissime origini che si muove alquanto agilmente tra finzione e documentario. Un po’ come Larraín, con un piglio politico forse meno evidente ma mai domo, Macdonald sta mettendo insieme i tasselli di un grande affresco storico, novecentesco, muovendosi tra icone (non solo) pop: Marley, Whitney, adesso One To One: John & Yoko. Senza dimenticare, sul piano storico\politico, fiction compresa, i vari Un giorno a settembre, L’ultimo re di Scozia, Il nemico del mio nemico e via discorrendo. Affiancato dall’indispensabile montatore Sam Rice-Edwards, Macdonald confezione un trascinante blob generazionale, una sfida nemmeno troppo a distanza tra Lennon e Nixon, tra la poesia di Ginsberg e il martellamento degli spot televisivi, tra la creatività di Yoko Ono (l’irlandese Yoko O’No!) e le stolte nenie degli ultraconservatori. Un concerto che si espande nello spazio e nel tempo, ritrovando il senso di battaglie passate, perdute, vinte. [e.a.]

16.20
Un po’ come la Marvel e il suo MCU, anche Pablo Larraín sta (ri)costruendo, pezzo dopo pezzo, un immaginario di eroi ed eroine, con tanto di villain. Più che sulle origin story o sugli assemble (anche se qui il desiderio spettatoriale di un crossover si è fatto palpitante), Larraín si concentra però su alcuni frammenti, su periodi brevi ma intensissimi, tragici, cadenzati dalla morte, dalla fine di tutto – non solo della vita, ma anche dei sogni, delle illusioni, di Camelot. Nuovo capitolo del Larraín Cinematic Universe, Maria si specchia letteralmente in Jackie, ne evoca i fondamentali primi piani (qui, lunghissimo, a ricordarci del talento poco sfruttato di Angelina Jolie), le scelte narrative, le dorate prigionie, la solitudine delle divinità. Imperfetto, ovviamente divisivo, straziante e lucidissimo nella sua programmatica rilettura delle icone novecentesche, orrori compresi. Astenersi perditempo. [e.a.]

15.50
Nella sezione Orizzonti è stato presentato Diciannove, lungometraggio d’esordio di Giovanni Tortorici. Prodotto da Luca Guadagnino (e lo si avverte) è il racconto di un’inquetudine che trova un suo corrispettivo spaziale nel nomadismo del protagonista, che divide il suo percorso di formazione tra Palermo, Londra, Siena e Torino, in perenne lotta con se stesso e l’ambiente circostante. Lo sguardo sul mondo giovanile è fresco e non scontato, peccato solo che il film sia appesantito da soluzioni stilistiche esornative e da qualche tipica ingenuità da opera prima. [a.p.]

15.00
Il cinema argentino, di notevole vitalità in questi ultimi anni, approda in concorso con Kill The Jockey. Il regista e sceneggiatore Luis Ortega sfodera una verve narrativa spericolata, quasi almodovariana nello sfidare la sospensione d’incredulità e gira con un gusto spiccatamente stilizzato senza però riscattare un film che resta prigioniero della propria bizzarria. [a.p.]

Giovedì 29 agosto 2024
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20.41
Super Happy Forever è il nuovo lavoro del filmmaker nipponico Kohei Igarashi, la storia difficile dell’elaborazione di un lutto in una località di villeggiatura. La vita scorre sempre in una direzione, come spesso ribadito dalla filosofia orientale qui espressa nella citazione di una poesia dell’autore classico Kamo no Chōmei. Eppure il cinema può abbracciare presente e passato, fine e inizio di una storia, passare da oggi a ieri senza soluzione di continuità, basta un breve carrello sulle porte di un albergo. [g.r.]

14.30
Oggi si inaugura in maniera ufficiale anche la Settimana Internazionale della Critica, la sezione autonoma e parallela organizzata dal Sindacato Nazionale dei Critici Cinematografici Italiani. L’onere e onore è spettato a Planète B, opera seconda di Aude Léa Rapin che si getta nel sci-fi per una rappresentazione non troppo metaforica di un sistema occidentale solo in apparenza democratico. Molto convincente la prova di Adèle Exarchopoulos per un film che testimonia (qualora ce ne fosse bisogno) lo stato di salute di un determinato modello produttivo francese. [r.m.]

13.10
Sequel tanto atteso quanto (via via) temuto, Beetlejuice Beetlejuice riesce a contenere, riassumere e in parte persino spiegare la parabola creativa di Tim Burton, qui alle prese con l’inevitabile passare del tempo, i mutamenti generazionali e le derive del cinema (e dell’immaginario) hollywoodiano. A suo modo, nel bene e nel male, un’opera-mondo forse definitiva, tombale. Non una rinascita, ma quantomeno l’ennesima rivincita dell’analogico sul digitale. E dei plastici sui pixel. [e.a.]

Mercoledì 28 agosto 2024
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22.00
Oggi si sarebbe dovuta svolgere la proiezione dedicata a stampa e industry di Antikvariati, l’opera seconda della regista georgiana Rusudan Glurjidze in concorso alle Giornate degli Autori. Il condizionale è purtroppo d’obbligo, perché la proiezione è stata inibita a seguito di un decreto d’urgenza del Tribunale di Venezia, ottenuto dalle società Viva Film (Russia), Avantura Film (Croazia) e Pygmalion (Cipro) per una contestazione sul copyright di sceneggiatura. Una mossa a sorpresa, arrivata proprio nel tempo utile per impedire un ricorso e garantire la proiezione, che ha il sapore dell’azione politica punitiva, visto che Glurjidze concentra il suo film sulle espulsioni di massa dei georgiani che vivevano a San Pietroburgo nel 2006. Si spera ovviamente ci sia l’occasione per il pubblico di vedere il film in sala al Lido, ma il clima è stato pesantemente avvelenato. [r.m.]

16.00
E quindi Nonostante di Valerio Mastandrea, sua opera seconda da regista, dà via alla sarabanda ultraottantenne della Mostra; un lavoro che guarda alla commedia fantastica densa di amarezze – si parla pur sempre di trapasso, o quasi -, e che ambisce a una leggiadria che sfiora a tratti. Peccato che l’impianto classicheggiante non sia rafforzato mai da un punto di vista davvero personale, rendendo questo racconto di “evoluzione” un po’ prevedibile, e facilmente dimenticabile. [r.m.]

15.25
Tra circa mezz’ora potremo scrivere del titolo di apertura di Orizzonti, Nonostante di Valerio Mastandrea, ma intanto annotiamo questo inizio di Mostra come uno dei più afosi, se non il più afoso, da quando mettiamo piede al Lido (tardi anni Novanta). Che sia cambiamento climatico o meno, non si respira. [r.m.]

Info
Il sito ufficiale della Mostra del Cinema di Venezia 2023.

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