Jackie

Biopic che viola molte regole del genere, Jackie è la conferma del talento di Pablo Larraín, e il primo vero colpo al cuore della Mostra del Cinema di Venezia 2016. Con una straordinaria Natalie Portman.

Ricordare Camelot

Il tempo torna indietro agli Stati Uniti degli anni Sessanta, includendo anche filmati originari del 1963, che confondono realtà e finzione, sulle tracce di una donna che è diventata un’icona. Il lungometraggio si distende su un periodo di quattro giorni, a partire da poco prima dell’assassinio del marito e presidente americano John F. Kennedy, lungo i primi dolorosi e concitati giorni che seguirono alla tragedia… [sinossi – labiennale.org]

“Alla gente piacciono le favole, ma non ci sarà più nessuna Camelot”, afferma Jacqueline Bouvier, vedova Kennedy, al giornalista che la sta intervistando. Camelot non è solo il regno mitologico di Re Artù, simbolo di pace e democrazia (prima che le bramosie della carne, con l’amore di Lancillotto e Ginevra, e della fede, con la ricerca del Graal, lo devastino all’interno), ma anche un musical di successo portato in scena a Broadway nel 1960 da Alan Jay Lerner e Frederick Loewe; Jackie racconta che il marito lo ascoltasse tutte le sere prima di mettersi a letto, in particolar modo la parte finale nella quale si canta del “barlume di gloria” da tramandare ai posteri.
È tutto racchiuso nella stessa dicotomia anche Jackie, settimo lungometraggio diretto da Pablo Larraín, il terzo apparso in giro per i festival in appena diciannove mesi, dopo Il club e Neruda: nel ritrarre il lutto della più celebre delle first lady, Larraín pone in un incessante racconto le esigenze del mito e quelle della società dello spettacolo. “È stato uno spettacolo”, confida il giornalista alla donna parlando del funerale di Kennedy, e nell’originale Larraín utilizza il termine spectacle, non show, a rimarcare una ricerca nel linguaggio che dona sempre senso a ciò che sta mettendo in scena.

Uno spettacolo, certo, visto da milioni di persone in televisione, ma anche l’intimo strazio di una donna che ha perso il marito, ma in realtà si accorge di non aver dato senso e struttura a se stessa. Non ha una casa, lei che aveva aperto le porte della White House alla televisione (la casa del popolo, come la chiama), pensa che le promesse fatte all’altare siano state ben presto disattese, e non ha timore di comunicarlo proprio al prete che dovrà celebrare l’ultimo saluto di una nazione a un presidente che ha profondamente amato. Al punto di ucciderlo.

Non è la prima volta che Larraín si trova a tu per tu con il cadavere di un presidente, ma se Salvador Allende fu solo una delle vittime sacrificali della democrazia cilena (insieme al suo popolo, destinato a sofferenze ancora maggiori), Kennedy divenne il simbolo della perdita della purezza di un paese che si considerava al di sopra del bene e del male, nonostante una guerra civile combattuta appena cento anni prima. Per questo l’autopsia del presidente stavolta può rimanere fuori campo, mentre la morte deve essere mostrata in tutta la sua brutale efferatezza, con il lato destro della testa di JFK che esplode sul grembo di Jackie, e il terrore sul volto screziato di sangue di lei.
Larraín mette in scena una volta di più il potere, e le forme umane che esso assume. Jackie Kennedy, che quel potere l’ha visto dormirgli accanto, tradirla (“mio marito è stato nel deserto, per resistere alle tentazioni”, nella creazione del mito si ricorre anche alle citazioni bibliche), e con quel potere si è confrontata ogni giorno, suo malgrado, deve ora esercitarlo, seppur per pochi giorni. Deve organizzare un funerale che tutti ostacolano, ufficialmente per questioni di sicurezza nazionale, e creare il suo Artù personale da donare a un popolo confuso, spaventato, forse ipocrita. Uno sforzo titanico, ma non troppo per una donna giovane che ha già seppellito due figli e ora sta per fare lo stesso col marito.

Con chi prendersela, con un dio assente prima ancora che crudele? Con una nazione ingrata? Con la Birch Society? Come sua abitudine, Larraín fa procedere la narrazione (la sceneggiatura la firma Noah Oppenheim) per un accumulo di schermaglie dialettiche, unico modo non per raggiungere una verità impossibile da conoscere per strenua volontà di chi la detiene (gli sfoghi più sinceri di Jackie al giornalista terminano tutti con una severa auto-censura), ma per stratificare il discorso e provare a scavare in profondità nell’animo dei personaggi. Eppure, con una scelta mirabile, Larraín esclude dalla contesa qualsiasi dialogo tra Kennedy e sua moglie. Il defunto presidente può essere visto solo di sfuggita, ed è sempre lui a porsi al fianco della consorte, e mai il contrario.
La camera d’altro canto è costantemente incollata a Jackie, che stia ripassando a memoria le battute con cui introdurrà la Casa Bianca ai telespettatori o stia discutendo con Bobby, il fratello minore del marito e futuro “martire” della democrazia statunitense. Nelle sue vesti Natalie Portman regala un’interpretazione sontuosa, nel ruolo che potrebbe regalarle l’immortalità cinematografica.

“Per la regalità serve tradizione, e per la tradizione serve tempo”; quel tempo che la Storia non ha concesso a Kennedy Larraín lo deforma, usandolo come elastico avanti e indietro, reiterando e creando corto circuiti narrativi. Questo elemento, insieme a un rigore assoluto nella costruzione del quadro e a un utilizzo mai decorativo della colonna sonora, confermano ulteriormente il talento e il coraggio del regista cileno, che a quarant’anni compiuti da meno di due mesi si confronta con Hollywood senza cedere un millimetro alle lusinghe della Mecca del Cinema. Utilizzando gli stilemi del biopic Larraín li rivolta dall’interno, senza per questo rinunciare a un cast di divi (tra gli altri, oltre la Portman, Greta Gerwig, Perer Sarsgaard, John Hurt e Billy Crudup) eppure donando vita a un oggetto alieno, tragico e politico.
Sempre in indagine, Larraín si interroga piuttosto che declamare, come dimostra la fuggevole inquadratura in cui dalla macchina che la sta portando via dalla Casa Bianca (“tutte le first lady devono prepararsi a fare la valigia”) Jackie vede i manichini in allestimento in un negozio di moda, tutti con i modelli che l’hanno resa celebre.
Conferma di un genio cinematografico fuori dal comune, Jackie è il primo vero colpo al cuore del concorso di Venezia 73.

Info
Una clip in versione originale di Jackie.
La scheda di Jackie sul sito di Venezia 2016.
  • jackie-2016-pablo-larrain-001.jpg
  • jackie-2016-pablo-larrain-002.jpg
  • jackie-2016-pablo-larrain-003.jpg

Articoli correlati

Array
  • Venezia 2016

    Venezia 2016 - Minuto per minuto...Venezia 2016 – Minuto per minuto

    Dal primo all'ultimo giorno della Mostra di Venezia 2016, tra sale, code, film, colpi di fulmine e ferali delusioni: il consueto appuntamento con il “Minuto per minuto”, cronaca festivaliera dal Lido con aggiornamenti quotidiani, a volte anche notturni o drammaticamente mattinieri...
  • Festival

    Venezia 2016Venezia 2016

    La Mostra del Cinema di Venezia 2016, dalla proiezione di preapertura di Tutti a casa di Comencini al Leone d’oro e alla cerimonia di chiusura: film, interviste, premi, il Concorso, Orizzonti, la Settimana della Critica, le Giornate degli Autori...
  • Venezia 2016

    Venezia 2016 – Presentazione

    Presentato a Roma il programma ufficiale di Venezia 2016, settantatreesima edizione della Mostra, la quinta dopo il ritorno di Alberto Barbera in veste di direttore artistico.
  • Archivio

    Neruda

    di Pablo Larraín si conferma uno dei più grandi registi in attività, trasformando un biopic sul poeta e senatore Neruda in una riflessione sul potere, sull'arte, sulla scrittura della vita propria e altrui. Alla Quinzaine des réalisateurs 2016.
  • Archivio

    Il Club

    di Dopo la dittatura di Pinochet, stavolta con Il Club Pablo Larraín scaglia il suo feroce sguardo sulla Chiesa cattolica e conferma la mirabile qualità di un cinema che si alimenta della militanza politica e non si annulla in essa. Orso d'Argento alla Berlinale nel 2015.
  • Archivio

    No - I giorni dell'arcobaleno RecensioneNo – I giorni dell’arcobaleno

    di Larraín integra i materiali di archivio in modo naturale al girato ex-novo, senza che appaiano come corpi estranei, e si permette una riflessione, acuta e mai banale, sul valore politico non solo di ciò che si filma, ma anche di come lo si filma.
  • Archivio

    Tony Manero

    di Santiago del Cile, 1978. Il Paese è governato da Pinochet, molte persone spariscono nel nulla e per alcuni La febbre del sabato sera è una sorta di filosofia di vita, un raggio di luce nel buio. Tra questi, il non più giovane ballerino Raùl Peralta, uomo schivo, burbero...