Jia Zhangke, un gars de Fenyang

Jia Zhangke, un gars de Fenyang

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Il linguaggio cinematografico come esperanto. Un regista brasiliano, Walter Salles, si innamora del cinema di un regista cinese, Jia Zhangke, e realizza su di lui un film commovente e pieno d’amore verso la Settima Arte: Jia Zhangke, un gars de Fenyang, evento speciale al Festival di Roma.

Com’era verde la mia valle

Walter Salles conduce Jia Zhangke sui luoghi dei film da lui girati, inducendolo a riflettere sul suo cinema ma anche sulla sua vicenda biografica. [sinossi]

Walter Salles è un regista discontinuo e sin troppo eclettico, volendo intendere questo secondo aggettivo in senso negativo così come usava fare Lino Micciché – a volte ingiustamente – per certi grandi mestieranti del cinema italiano anni ’70. Ma, stavolta, l’eclettismo del regista brasiliano, autore tra gli altri de I diari della motocicletta e di On the Road, lo ha condotto non solo dall’altra parte del mondo – vale a dire in Cina – ma persino dall’altra parte del cinema (almeno apparentemente), quella occupata da uno dei rari cineasti capaci di riflettere in profondità sulle contraddizioni del contemporaneo (cinematografico, sociale, estetico ed esistenziale): Jia Zhangke. E questo incontro ha finito per partorire uno dei titoli più curiosi, interessanti e preziosi della nona edizione del Festival di Roma, Jia Zhangke, un gars de Fenyang (che è stato presentato in forma ancora non definitiva, ma in realtà mancano più o meno solo i titoli). Il documentario di Salles è infatti una testimonianza imprescindibile che permette di comprendere meglio come nasce e come si alimenta il mondo cinematografico dell’autore di Still Life.

Aiutato e affiancato per le interviste dal critico e storico del cinema Jean-Michel Frodon, Salles riporta Jia Zhangke sui luoghi dei suoi film, invitandolo così a riflettere sia sul suo percorso cinematografico che sulla sua biografia. L’idea, se vogliamo, è dunque banalissima e se ne sono visti non pochi di film dedicati a un regista fatti a questo modo, ma Jia Zhangke, un gars de Fenyang si regge tutto – e in modo perfetto – grazie alla semplicità di questo spunto, senza che si sia cercato in alcun modo di imbellettarlo.
Al centro della scena, più che la meccanica classica dell’intervista, c’è il dialogo: dialogo che, in primis, Jia Zhangke instaura guardando direttamente verso lo spettatore e dunque interagendo con Salles dietro alla macchina da presa, ma anche un dialogo e un confronto che si sviluppa con le persone che fanno parte della sua vicenda umana (la mamma, la sorella, l’attore Wang Hongwei, volto feticcio del suo cinema a partire dall’amatoriale Xiao Shang Going Home del ’95). Non vi sono intenti didascalici o pedagogici, ma solo un enorme atto d’amore di un cineasta nei confronti di un altro, in cui Salles – con gesto di grande umiltà – si mette completamente al servizio di Jia.

Così, la qualità umana di Jia Zhangke emerge in forma pubblica – forse per la prima volta, vista la nota timidezza – in tutte le sue sfaccettature, dalla tenerezza della visita alla mamma e alla sorella (una sequenza che potrebbe entrare benissimo a far parte di un qualsiasi film di Jia), al festeggiamento con i vecchi amici, al ricordo commosso del padre, morto diversi anni fa, all’incontro casuale nella sua città natale con un vecchio vicino di casa che gli chiede di fare una foto insieme (e Jia si presta con la semplicità dei modi che gli è propria). Succede pertanto che Jia Zhangke, da protagonista del film di Walter Salles, finisca per assumere dei connotati tipici dei personaggi dei suoi film, per uno slittamento che appare tutt’altro che paradossale e anzi testimonia la grande affinità che si è venuta a creare tra i due cineasti.

Prima della proiezione qui al festival, Salles è stato premiato con il Marc’Aurelio alla carriera e in quest’occasione ha ricordato cosa gli disse una volta Jia a proposito dei suoi referenti cinematografici: Antonioni gli aveva insegnato a usare lo spazio, Bresson a usare il tempo e Hou Hsiao Hsien a mettere nei suoi film gli accadimenti quotidiani e apparentemente banali dei personaggi. Da questa triade nasce in effetti l’articolazione di tutto il cinema di Jia e ne abbiamo conferma anche in Jia Zhangke, un gars de Fenyang.
I luoghi innanzitutto: si prenda in tal senso il vecchio teatro che si vedeva all’inizio di Platform, di cui è rimasto solo – con abissale ‘taglio’ metaforico – il palcoscenico a cielo aperto; i luoghi sono ciò che mutuano la nascita dell’immagine nel cinema di Jia, il cui scopo è – come dice a Salles – quello di registrare oggetti, città, persone e paesaggi purtroppo prossimi alla sparizione (e in tal senso Still Life, ambientato nella valle delle Tre Gole prima della costruzione della diga, vale da paradigma assoluto), o al contrario di registrarne la permanenza ‘impermanente’, vale a dire la loro natura di asettico artificio (e qui pensiamo a The World).
Il tempo, invece, è ciò su cui si regge l’attesa, l’attesa di un cambiamento, temuto o sperato, forse un cambiamento che non avverrà mai, lasciando tutto immobile e immoto: cruciale in tal senso è l’esempio che viene fatto da Jia sempre nel film di Salles, relativo ad Unknown Pleasures, in cui mentre l’attore protagonista non riusciva a riaccendere la moto, Jia – preso da un’illuminazione improvvisa – decise di non dare lo stop e di registrare i vani tentativi del ragazzo, che finirono per simboleggiare l’anelito al movimento e al vano desiderio di esperire una temporalità lineare e progressiva.
Per la naturalezza dei gesti quotidiani, invece, viene alla mente un’altra scena di Platform: l’inquadratura iniziale del film in cui scopriamo, ancora grazie a Salles, che Jia chiese a un gruppo di contadini di mettersi davanti a una grande piantina geografica, usata come sorta di scenografia teatrale, e di cominciare a parlare tra di loro. Inizialmente irrigidite dalla situazione, queste comparse improvvisate presero poi a conversare, tanto che finirono per dimenticarsi della presenza della macchina da presa. Il risultato, come può ricordare chiunque abbia visto il film, è di una naturalezza estrema, di un fare quotidiano pieno di complicità comunitaria. Con questa inquadratura infatti viene già anticipato il tema del teatro e del palcoscenico, oltre che quello della contrapposizione tra la naturalezza del vivere quotidiano e la rigidità degli spettacoli teatrali nella Cina della fine degli anni Settanta, ma anche il tema del forte senso di solidarietà che si viveva all’epoca e che si andrà poi a contrapporre al successivo individualismo neo-capitalistico.

Ecco perciò che in Jia Zhangke, un gars de Fenyang si va progressivamente a comporre un mosaico di sensazioni e di riflessioni in cui, dietro l’apparente semplicità, si nasconde una profondità di discorso, un approccio umanista che va salvaguardato come una perla rara per un cinema che a livello globale si lascia sempre più sfuggire la riflessione sullo “stato delle cose” e preferisce evadere dal reale. E va ringraziato Walter Salles per aver riportato in primo piano la lezione del cinema di Jia, in un momento peraltro difficile per il cineasta cinese che, di recente, si è visto opporre dalla censura patria il visto per l’uscita in sala di Il tocco del peccato; un divieto che – come scopriamo nel documentario – gli ha perfino fatto pensare di abbandonare la carriera cinematografica. Per fortuna però le cose non sono andate così ed è bello scoprire che è in lavorazione il seguito di Platform in cui si torneranno a seguire gli stessi attori/personaggi a circa quindici anni di distanza.

Info
Il sito del Festival Internazionale del Film di Roma.

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