D’Est

D’Est

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Torna sugli schermi del Roma Film Fest nella sezione Storia del Cinema – Restauri, dopo il passaggio in prima Tv su Fuori Orario (cose mai viste) dello scorso anno, D’Est di Chantal Akerman, prezioso documento realizzato dalla regista di origini belghe nel 1993 nell’Europa dell’Est subito dopo la caduta del Muro di Berlino (e dell’Unione Sovietica). Un reportage da un mondo alieno e prossimo, allo stesso tempo.

Al freddo e al gelo

Viaggio nell’Europa del “dopo-Muro”, un documento unico di un momento unico nella Storia. Le pazienti carrellate su città e strade, su volti e corpi di persone qualsiasi costituiscono un viaggio interiore attraverso un mondo sospeso tra un passato orribile e un futuro ignoto. [sinossi]

Chantal Akerman è tornata agli onori delle cronache di settore per due accadimenti nello scorso decennio, uno infausto (la sua prematura scomparsa nel 2015, a sessantacinque anni) e uno gioioso, l’elezione del suo Jeanne Dielman, 23, Quai du Commerce, 1080 Bruxelles a miglior film del secolo nel 2022 dalla rivista britannica Sight and Sound, che ha aggiornato la sua decennale graduatoria interpellando registi, critici e giornalisti dell’ambito cinematografico. All’iniziale sorpresa e sgomento di tanti studiosi e appassionati, che hanno visto scalzare dal trono i giganti Welles e Hitchcock con Quarto potere e La donna che visse due volte, si è presto sostituita la curiosità cinefila nel recuperare il film e le opere precedenti e successive della cineasta, innescando quel meccanismo fecondo che segue ogni premio Nobel per la letteratura, per fare solo un esempio, con torme di lettori pronte a recuperare i testi vergati da questo o quell’autore proveniente magari dall’angolo opposto del globo. Scelta politica se ce n’è una dunque, e maggiormente sensata in luogo della sterile ripetizione in eterno di titoli ormai ampiamente visti, dibattuti e celebrati. In questa sede, però, non ci si occupa del film presentato alla Quinzaine cannense nel 1975 ma di un altro lavoro, selezionato a Locarno nel 1993: DEst, documentario che ha dovuto aspettare il restauro della Cineteca di Bruxelles del 2022 per ritornare a circuitare e a essere visto. Una pagina inestimabile di Storia dell’Europa, una testimonianza viva ancora oggi, a più di trent’anni di distanza, un viaggio attraverso i Paesi (appena ex) comunisti che parte dalla Germania dell’Est fino ad arrivare a Mosca, attraversando Polonia, Lituania e Ucraina. La calda estate al principio, le campagne in fiore, il lavoro nei campi; la morsa del gelo sempre più incombente, fino ad arrivare alla sterile e brulla distesa di paesaggi innevati, sia (ancora una volta) bucolici che metropolitani. Un lavoro di pura osservazione, senza voci fuori campo o musica a commento che non sia diegetica, uno sguardo puro, che comprende che il momento dell’analisi è ancora di là da venire e per ora non si può che restare muti, quasi attoniti, a contemplare i lenti cambiamenti in atto.

Lunghe carrellate con centinaia di persone in attesa di qualcosa che non vedremo mai arrivare, imbacuccate in cappotti e cappelli di pelliccia, di ogni età e sesso, alcuni coscienti della presenza della macchina da presa e altri (almeno all’apparenza) no, chiacchiere alcoliche in lingue e intonazioni a noi ignote, sigarette, buste di plastica che cominciano ad essere griffate dai marchi occidentali che penetrano nei nuovi mercati, specie nel campo dell’alta fedeltà elettrodomestica: è questo tipo di sequenza, più volte ripetuta nel corso del minutaggio, a rimanere impressa e a configurarsi come una sorta di manifesto socio-estetico dell’intero progetto, avvolta ora dal tramonto e ora dalle tenebre. La carrellata si muove quasi esclusivamente, con pochissime eccezioni, da destra a sinistra, piatta e in parallelo davanti agli oggetti d’interesse, al sale (per dirla con Salgado) di quelle terre come di ogni altra. L’impressione è che, nel 1993 e a due anni dalla dissoluzione sovietica, poco sia cambiato davvero, specie negli strati sociali popolari che la camera di Akerman si premura di filmare. Le sporadiche incursioni in case private appaiono figlie di una volontà compositiva di gran pregio, con gusto pittorico per luce e disposizione di esseri umani e suppellettili non comune. Ed ecco che in quelle case arredate in maniera spartana e funzionale, in quelle facce che appaiono scolpite nella pietra delle intemperie e della fatica si possono agevolmente rivedere stralci di quell’Italia contadina e pre-industriale dei paesi e delle masserie, del faticoso inurbamento che il boom economico sventolava come una seducente muleta davanti agli occhi di giovani affamati di vita e stanchi della mera sussistenza. Un’intera area del mondo registrata nel momento di passaggio, quando il socialismo reale è alle spalle e il futuro è nebuloso e di là da venire. Una sorta di momento pre-adolescenziale dunque, con la dissoluzione dell’apparato statale Madre che si occupa dell’essenziale e la vita “vera” davanti, densa di possibili gioie come di inenarrabili disgrazie. Akerman gira agilmente, imprimendo tanto materiale sulla sua pellicola 16mm, controllando come già detto minuziosamente luce e composizione, in modo da proporre del materiale audiovisivo al contempo sporco e curato, cinema diretto e insieme figlio dei grandi autori di finzione alla Kieslowski.

Si accennava poco sopra alle tracce “di Occidente” presenti nelle immagini: non moltissime, un cartello luminoso della Pepsi, una sporta per la spesa marchiata Panasonic, concerti di musica rock’n’roll/blues nelle strade e i ragazzi che ballano con le guance rosse di freddo e sudore, di emozione e goffaggine. È un mondo ancora precedente all’invasione di merci e stili di vita, alla globalizzazione, in attesa di un cambiamento che non tarderà ad arrivare ma che in quel momento appare ancora per strada, non giunto a compimento. Nella lunga inquadratura fissa di una donna intenta a tagliare un salame con un lungo coltellaccio palesemente non adatto alla bisogna, operazione preceduta dalla colonna sonora della scena messa sul piatto del giradischi dalla stessa con una melensa e strappalacrime canzone popolare, si configura un ulteriore manifesto programmatico dell’operazione: le modalità di racconto e rappresentazione, da quel momento in poi, potranno essere scelte, soggettive, non imposte da nessuna politica culturale di regime. Il rischio è sempre quello, naturalmente, che si vada versa una banalizzazione, una omologazione acefala priva d’intento pedagogico, ma è il rischio che molte di quelle persone, anche in maniera istintiva e involontaria, sentono/credono di dover correre. Un po’ come i Frammenti elettrici dalle Feste dell’Unità nel periodo della svolta della Bolognina firmati da Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, il film di Chantal Akerman è un contributo documentario di grande valore sociale, oltre che artistico, una capsula del tempo eternata per la posterità. Di non facilissima fruizione, come ci siamo accorti dalle facce e dalle reazioni dei ragazzi con gli accrediti culturali accorsi alla sala Cinecittà della Casa del Cinema per l’unica proiezione festivaliera, ma di struggente bellezza.

Info
Un estratto di D’Est.

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