Freud – L’ultima analisi

Freud – L’ultima analisi

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Con Freud – L’ultima analisi, versione cinematografica di un dramma di Mark St. Germain, Matt Brown (L’uomo che vide l’infinito) racconta l’inventato incontro londinese del settembre 1939, a guerra appena iniziata, tra Sigmund Freud e C.S. Lewis. Ottime interpretazioni, scrittura prevedibile, regia ligia ma asfittica.

Al di là del principio di racconto

Due giorni dopo l’invasione tedesca della Polonia, C.S. Lewis si reca a Londra da Oxford per incontrare Sigmund Freud, costretto a fuggire dall’Austria l’anno prima in seguito all’Anschluss. Durante il loro pomeriggio insieme i due discutono dei fatti salienti delle loro vite e Freud incalza Lewis per sapere di più sulla sua infanzia, la conversione al cattolicesimo incoraggiata da J. R. R. Tolkien, i traumi della prima guerra mondiale, la relazione con la madre di un suo commilitone e il rapporto con gli Inklings. [sinossi]

Prima dei titoli di coda una scritta bianca su schermo nero informa come pochi giorni prima della sua morte (nel settembre del 1939) Sigmund Freud ricevette la visita nella sua magione londinese da parte di un assistente universitario di Oxford; a quell’epoca un quarantunenne C.S. Lewis era già da quasi tre lustri docente di Lingua e Letteratura Inglese presso il Magdalen College nella “città della guglie sognanti”, ed è quindi altamente improbabile che sia stato lui a recarsi al capezzale del padre della psicanalisi. Ecco dunque che Freud – L’ultima analisi, con cui torna alla regia Matt Brown, si presenta agli occhi degli spettatori come una rêverie, una fola che ambisce a contenere al proprio interno un dilemma morale, la dialettica incessante e mai terminabile tra l’assertività della scienza e quella della fede spirituale. Non è vero che Freud e Lewis, futuro autore del ciclo della Cronache di Narnia, dialogarono amabilmente ma senza scendere a compromessi di sorta per un intero pomeriggio, prima che il letterato riprendesse la via verso Oxford, ma agli occhi di Brown, che si adegua alla drammaturgia teatrale di Mark St. Germain – a sua volta ispirata al saggio The Question of God di Armand Nicholi –, questo canone a due voci diventa l’occasione per discettare dell’esigenza umana a trovare un punto d’incontro che sia in grado in modo sincretico di far convivere le diverse visioni del mondo, della vita, e della complessità. Non è casuale che questo incontro sia ambientato a Londra nei giorni immediatamente successivi all’invasione del territorio polacco da parte dell’esercito nazionalsocialista tedesco, in quella che all’epoca veniva interpretata come blitzkrieg, la guerra lampo, il sogno/incubo del Novecento.

Già, il sogno, l’elemento onirico che da oltre un secolo nell’immaginario collettivo è strettamente connesso al nome di Freud, è anche il punto cui di quando in quando cerca di approdare Brown, tra ricordi notturni tanto dello psicanalista quanto dello scrittore – quel perdersi nella foresta (della fantasia?) da parte di C.S. Lewis è una scelta un po’ semplicistica, a ben vedere –, e in generale un’atmosfera sospesa, come se la casa del grande austriaco fosse in realtà un non-luogo, uno spazio mentale e sentimentale in cui far scontrare e confrontare idee oppositive, ma in grado di trovare un punto d’incontro umanista contro la barbarie imperante. Una suggestione, quest’ultima, che potrebbe anche essere foriera di un crescendo emozionale non indifferente, se non fosse che quasi colto dal dovere di svolgere al meglio il compitino il regista si lancia in una serie di digressioni gestite in modo raffazzonato, o comunque non in grado di generare l’interesse necessario. In questo scenario ricade anche il personaggio di Anna, la figlia di Freud nonché illustre psicanalista a sua volta, la cui posizione di totale subalternità rispetto al padre – che si tramuta nei suoi confronti in una sorta di dittatore – è sviscerata senza acume, e senza scalfire in alcun modo la superficie liscia della sceneggiatura. Manca quasi completamente il conflitto in Freud – L’ultima analisi, e dunque in maniera inevitabile viene meno anche l’analisi stessa, l’introspezione effettiva di due figure che avrebbero meritato un trattamento meno ingessato, più libero.

Quel che ne viene fuori è invece un classico film dall’aplomb britannico, in cui la narrazione è quasi del tutto edificata sulle interpretazioni senza dubbio maiuscole dei suoi protagonisti (Anthony Hopkins entra negli abiti di Freud con nonchalance, agitando di quando in quando qualche accenno di tedesco che rimanda alla mente il suo folgorante van Helsing nella cosmogonia coppoliana, Matthew Goode ad agitare un Lewis austero eppur non privo di tormenti, a partire dal ricordo indelebile e traumatico del primo conflitto mondiale), e che Brown dirige senza brio, in modo canonico e ligio al dovere ma anche asfittico, privo di qualsivoglia slancio. Il rischio bignami è sempre dietro l’angolo, così come la retorica di alcuni dialoghi che servono solo a rilanciare verso il pubblico passaggi chiave della poetica dei due intellettuali, e il modo in cui si inserisce nel contesto la relazione sentimentale tra Anna e Dorothy Burlingham appare davvero approssimativo, e dunque vacuo. Di quando in quando, lo si ammette, la mente corre verso il Freud tratteggiato da Remo Remotti ne La mamma di Freud, il film fittizio la cui lavorazione è uno dei fulcri di Sogni d’oro di Nanni Moretti. E scatta il rimpianto.

Info
Freud – L’ultima analisi, il trailer.

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