Battle Royale
di Kinji Fukasaku
Battle Royale, ultimo film diretto da Kinji Fukasaku (il regista morirà subito dopo aver iniziato le riprese del sequel, portato poi a termine dal figlio Kenta che qui è sceneggiatore), è in qualche modo anche un compendio della sua poetica. A partire dal conflitto insanabile tra una forza “adulta” conservatrice e una “adolescente” ribelle e insubordinata, fino ad arrivare alla morte della nazione e all’utilizzo mai estetizzante della violenza, si trovano nel film tutti gli elementi cardine della filmografia di Fukasaku. Battle Royale fu duramente attaccato in patria, a partire ovviamente dall’estrema destra, e rimane a oltre venti anni dalla sua realizzazione uno dei film più discussi del cinema giapponese: anticipatore dei vari Hunger Games e Squid Game, che però non ne possiedono il vigore nichilista e la potenza romantica. Tra i classici restaurati al Far East 2022.
Il professor Kitano e la sua classe
All’alba di un nuovo millennio, nel tentativo di mantenere l’ordine sulla popolazione adolescente, viene introdotta una nuova legge, in base alla quale una classe di studenti viene selezionata a caso per combattere per la propria sopravvivenza. La scelta ricade sulla classe di Shuya Nanahara, abbandonato in tenera età dalla madre e testimone del suicidio per impiccagione del padre. [sinossi]
Le regole del programma governativo Battle Royale sono chiare, nette, incontrovertibili: su un’isola deserta a ogni studente viene assegnata una sacca nella quale troverà una bussola e una mappa per orientarsi, viveri per nutrirsi nell’arco di tre giorni, e un’arma a caso. Tutti gli studenti avranno come scopo quello di eliminarsi l’un l’altro, perché solo uno di loro potrà essere eletto vincitore. Qualora al termine dei tre giorni ci fosse sull’isola più di un adolescente ancora in vita i sopravvissuti verrebbero terminati ricorrendo alla carica esplosiva che è stata loro posta attorno al collo. Non si può accusare il governo giapponese di peccare di chiarezza, o di creare zone d’ombra in cui a dominare è il chiaroscuro. Lo scopo del Battle Royale? Facile, mettere in riga una gioventù sempre più indisciplinata e restaurare l’ordine, ovviamente ricorrendo all’esercito. Restaurazione, Ordine, Esercito. Non è casuale che nel Giappone che si apprestava a entrare nel nuovo millennio un film come quello di Kinji Fukasaku contribuisse a creare un profondo clima di destabilizzazione: nel corso della sua vita “moderna”, iniziata solo nella seconda metà del Diciannovesimo Secolo, il Giappone ha ripetutamente costruito la propria identità ricorrendo ai tre termini sopracitati. Restaurazione fa pensare a Meiji, l’imperatore che riprese tra le mani le redini dell’arcipelago dopo la lunga era Tokugawa, durante la quale la più alta carica dello Stato era stata trasformata in un fantoccio nelle mani dello shōgun, tecnicamente il capo di tutte le forze armate (Esercito, dunque). L’Ordine, infine, gestito dall’esercito su controllo dell’imperatore – e in parte vice versa – era alla base della dittatura militare definita da alcuni storici Ten’nosei fashizumu (letteralmente “fascismo imperiale) che governò la nazione tra la metà degli anni Trenta e la fine della Seconda Guerra Mondiale. Il futuro distopico immaginato da Kinji Fukasaku a partire dalla sceneggiatura scritta dal figlio Kenta – il soggetto prende ispirazione dall’omonimo romanzo di Koushun Takami, portato a termine nel 1996 ma pubblicato solo tre anni dopo, nel 1999 – è dunque un attacco frontale a una delle basi dell’ideologia politica giapponese, su cui tutt’ora si poggia il pensiero dell’estrema destra (ma anche della destra liberale, che continua a mitizzare tanto l’esercito quanto l’imperatore) e che svolge un ruolo non indifferente all’interno della dialettica nazionale. Non c’era dubbio che in patria si sarebbe alzato un polverone, nel quale lo scandalo prodotto dalla rappresentazione della violenza per di più legata all’adolescenza serviva solo a confondere le acque, nascondendo il vero motivo dell’attacco politico: la messa alla berlina dello stato delle cose. Se si escludono brevissime parentesi temporali (ad esempio quella che vide al governo tra il 2009 e il 2012 il Partito Democratico del Giappone, di ispirazione liberal-progressista, dalla vita breve e tumultuosa), il Giappone è una sorta di feudo del Jimintō, il Partito Liberal Democratico che porta avanti le istanze conservatrici della nazione e che in modo sempre maggiore sta lavorando a un ripristino degli armamenti, con un esercito in grado di offendere e non solo di difendersi. Per quanto ambientato in uno scenario fanta-politico, con una legge marziale a dir poco estrema, Battle Royale è un racconto dell’oggi, valido nel 2000 come nel 2022, ed è questo elemento che creò e crea “problemi” all’establishment.
Dopotutto, a rinnovare il sentore di una lettura politica e storica del Giappone è l’esperienza diretta di Fukasaku: nato a Mito, capitale della prefettura Ibaraki, nel 1930, il futuro regista è quindicenne quando la guerra, entrando nella sua fase finale, diventa maggiormente feroce e colpisce in maniera diretta il territorio giapponese. La sua classe di liceo venne arruolata in massa, e messa a lavorare in una fabbrica di munizioni. Nel luglio del 1945 la fabbrica in cui questi adolescenti sono costretti a lavorare viene colpita dalle bombe statunitensi: intrappolati nello stabile, i ragazzi si nascosero sotto i corpi dei loro compagni per evitare di essere colpiti dai detriti e dai cedimenti strutturali. Quando poi il bombardamento cessò, i sopravvissuti vennero obbligati a occuparsi dei cadaveri straziati dei loro coetanei, seppellendoli in modo raffazzonato e rimuovendoli dallo stabile. Il Giappone descritto in Battle Royale, in qualche modo, nasce anche da questo ricordo, che segnerà in modo indelebile il pensiero di Fukasaku, sempre interessato a raccontare la follia del conflitto – si pensi a Under the Flag of the Rising Sun, in particolar modo –, la necessaria insubordinazione agli ordini, l’impossibilità di riconciliazione tra un mondo adulto conservatore e un altro, adolescente, in ribollimento, eversivo più che rivoluzionario. L’eversione, in Battle Royale, è nella scelta di non uccidere il compagno, di proteggerlo a costo della propria vita, di rinnegare l’ordine impartito. Una scelta dolorosa, che può comportare la morte: da subito alcuni dei compagni di classe di Shuya Nanahara preferiscono la morte all’idea di dover massacrare altre persone per permettersi la vita, un paio si lanciano nel vuoto da una scogliera, altri si impiccano a un albero. A parte Nanahara, Nakagawa e Kawada, che fanno gruppo e si proteggono gli uni con gli altri, ad andare avanti in questo gioco al massacro sono solo gli psicotici, i sadici, chi non si cura di niente e di nessuno. Il Giappone che il governo sta creando, suggerisce Fukasaku, sarà la patria dei sociopatici, di esseri umani che non hanno alcun rapporto con la socialità, e con il benessere collettivo. Solo l’eversione di chi si allea e combatte insieme può rappresentare una pur pallida speranza.
Summa della poetica fukasakiana, in grado di contenere tutti gli elementi ricorsivi del suo pensiero sul cinema (a partire ovviamente dalla messa in scena della violenza, mai parossistica e mai estetizzante, ma sempre pervasiva) e allo stesso tempo di muoversi in direzione di un grande e appassionante spettacolo per le masse, Battle Royale segna uno degli ultimi momenti in cui la produzione “popolare” giapponese osò mettere in atto un pamphlet politico, senza ricorrere ad alcun compromesso. Fukasaku, insieme al figlio Kenta, ordisce una narrazione che lascia senza fiato, ricca di colpi di scena pur nella sua inevitabile mattanza, ma anche attenta a costruire una psicologica credibile per quasi tutti i personaggi in scena, a partire ovviamente dall’insanabile dolore che si tramuta in ferale ossessione di morte incarnata da Takeshi Kitano, che concede addirittura il suo cognome al personaggio che interpreta, il professore che lasciò la classe dopo essere stato accoltellato da un suo studente e ora torna come organizzatore del gioco al massacro per conto del governo. Tra traumi infantili – la ragazza che uccise il pedofilo che stava per approfittare di lei quand’era bimba –, amori inespressi, codici che male interpretati portano a una carneficina, Battle Royale è l’appassionante coming-of-age di una generazione a cui non viene concesso il diritto di crescere, ma solo quello di uccidersi a vicenda per guadagnarsi un posto nella società. Lo fa ragionando sul quotidiano, senza dunque gli svolazzi fantascientifici di Hunger Games (dove gli Stati Uniti hanno cambiato sistema) e senza la delusione di vita alla base di Squid Game, due prodotti audiovisivi che molto devono al film di Fukasaku senza però possederne il vigore nichilista e la potenza romantica. Giunto alla sua sessantunesima regia in quarant’anni di attività Fukasaku non avrà purtroppo la possibilità di dirigere altro: nel gennaio del 2003 morirà infatti a 72 anni per un cancro alla prostata. Del seguito di Battle Royale aveva fatto in tempo a girare un’unica sequenza, con Takeshi Kitano. Kenta Fukasaku, che finirà di dirigere Battle Royale II: Requiem, glielo dedicherà.
- Genere: action, fantascienza, thriller
- Titolo originale: Batoru Rowaiaru
- Paese/Anno: Giappone | 2000
- Regia: Kinji Fukasaku
- Sceneggiatura: Kenta Fukasaku
- Fotografia: Katsumi Yanagishima
- Montaggio: Hirohide Abe
- Interpreti: Aki Maeda, Chiaki Kuriyama, Eri Ishikawa, Hitomi Hyuga, Kou Shibasaki, Masanobu Andō, Minami, Sayaka Ikeda, Sousuke Takaoka, Takashi Tsukamoto, Takayo Mimura, Takeshi Kitano, Tarō Yamamoto, Tatsuya Fujiwara, Yūko Miyamura, Yukihiro Kotani, Yutaka Shimada
- Colonna sonora: Masamichi Amano
- Produzione: Battle Royale Production Committee
- Distribuzione: CG Entertainment
- Durata: 122'
- Data di uscita: 20/10/2022