Sivas

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Con Sivas, in Concorso a Venezia 2014, il turco Kaan Mujdeci scimmiotta la maniera del neo-neorealismo transnazionale per un racconto insincero e ideologicamente molto discutibile. Pericoloso, perché superficialmente può anche catturare.

Il vero che vero non è

In un villaggio nell’Anatolia, vivono un ragazzino di undici anni, Aslan, e un cane da combattimento acciaccato, Sivas. Tra loro si sviluppa un legame molto forte dopo che Aslan trova Sivas abbandonato e ferito in un fosso. Uno spettacolo scolastico di Biancaneve e i sette nani fa da sfondo alla storia: Aslan è molto deluso per aver perso il suo ruolo di principe contro Osman, suo rivale in amore nonché figlio del capo del villaggio. Mentre Osman cerca di conquistare Ayse, la “principessa” del villaggio, Aslan cerca di impressionarla con il suo nuovo amico, Sivas. Il cane nel frattempo ha trovato una casa e inizia a vincere un combattimento dopo l’altro. [sinossi]

Premessa. Sivas di Kaan Mujdeci non sarebbe un brutto film. Appartiene, per amplissima astrazione, a un’ormai solida tradizione di cinema medioriental-europeo, in cui la tematica sociale va a sposarsi a un approccio diretto alla realtà. La cosmogonia, insomma, degli infiniti neorealismi, in cui la fanno da padroni la macchina a mano, il work in progress sulla sceneggiatura, che è anche scritta ma è già prevista la sua costante rimanipolazione in sede di riprese, l’utilizzo di attori non professionisti, l’importanza del paesaggio, l’attenzione per i territori e le culture dimenticate dal mondo, il frequente ricorso a figure di bambini.

Si va in un determinato luogo con l’intento di raccontare una storia locale, e si realizza il film per costanti, infiniti spostamenti progressivi, rispettando ovviamente il progetto a monte ma mettendo in conto le più diverse variabili contingenti. Mujdeci, autore turco alla sua opera prima in lungometraggio e già inserito in concorso a Venezia 71, ha realizzato Sivas collocandosi esattamente in questo solco. E’ andato in Anatolia, ha scelto uno dei tanti villaggi come centro del suo racconto, ha raccolto attori sul luogo e ha allestito un film che affonda direttamente nella realtà del luogo. Ma, si badi bene, la struttura narrativa adottata è solida e precostituita. Tutto è casuale, e niente è casuale. Mujdeci racconta le gesta di un bambino undicenne, Aslan, e del cane da lui adottato e utilizzato per combattimenti clandestini. Da un lato, Aslan vuole emergere e conquistarsi il ruolo del principe protagonista in una messinscena scolastica di “Biancaneve e i sette nani” per fare colpo su una compagna di scuola; dall’altro, si batte per tenere il cane con sé, è inizialmente entusiasta dei miglioramenti e grandi successi che il cane riporta nei combattimenti, per poi giungere a una consapevolezza precocemente adulta nel finale.

Fin qui, poco male. Niente di particolarmente originale, nell’ordine di un neo-neorealismo transnazionale che inizia ad aver fatto il suo tempo e che appare sempre un po’ uguale a se stesso. Ma Sivas si tramuta anche nella propizia occasione per toccare con mano quanto una collaudata retorica che ha fatto della sincerità il suo motto possa trasformarsi in conclamata ipocrisia. Sivas vorrebbe infatti apparire come un film mosso da sinceri sentimenti e stupori in un tipico racconto di infanzia alla scoperta della vita. Ma le polemiche sulle riprese dal vero dei combattimenti dei cani stavolta hanno un loro peso specifico, al di là di questioni strettamente animalistiche. Con tutta evidenza i combattimenti sono stati organizzati appositamente per le riprese (il bambino interagisce, fa il tifo, pronuncia battute magari rielaborate e “spontaneizzate” al momento delle riprese, ma appartenenti comunque a una diegesi fuori dai fatti reali), con dovizia di particolari su azzannamenti, colli sanguinanti e quant’altro. Se i combattimenti non fossero stati organizzati per il film e fossero stati colti casualmente nel loro divenire, la questione morale si sarebbe spostata sul mostrare. L’allestimento di essi per il set riporta invece in capo al filmmaker tutte le responsabilità.

Scavalchiamo la questione animalista (che pure non è secondaria), e limitiamo la riflessione al fatto-cinema. Esiste qualcosa di più ipocrita di un fatto ricostruito per denunciarne la violenza, perpetrando violenza nell’atto stesso della sua ricostruzione? Esiste peggior tradimento di un supposto “realismo” nella ricostruzione artefatta di un segmento spacciato per realistico tramite lo scaltro uso di collaudate retoriche audiovisive? L’uso politicamente scorretto di vere violenze ad animali per fare cinema basterebbe per sotterrare Sivas e i suoi realizzatori a prescindere. Ma sarebbe troppo facile, troppo immediato, in certa misura anche qualunquistico. Piaccia o no, la sensibilità animalista non è uniforme in tutto il mondo e può capitare di trovarsi di fronte a manifestazioni moralmente spiazzanti come i combattimenti di Sivas. La vera ipocrisia è però di ordine estetico, e a suo modo finisce per tradire anche l’ipocrisia ideale dell’autore, che crede a ciò che racconta assai meno di quanto appaia.

Sivas vorrebbe essere addirittura una fiaba di formazione, in cui tutti gli strumenti più tipici dell’esperanto neorealistico sono impercettibilmente piegati a una solida costruzione narrativa a monte, quella della fiaba con i suoi buoni e i suoi cattivi, col bambino lasciato da solo a difendersi da adulti aridi ed egoisti nella progressiva scoperta della vita e dei suoi dolori. Il bambino protagonista, Dogan Izci, è anche dotato di spontanea simpatia, ed è messo al centro di un pedinamento di zavattiniana memoria. Si noti, ad esempio, l’evoluzione compiuta dalla macchina da presa nei suoi confronti: per tutta la prima metà del film la macchina lo segue quasi esclusivamente alle sue spalle, per poi “emanciparsi” verso il tutto tondo. Ma non basta essere andati a scuola di neorealismo per trasformarsi in autori onesti e sinceri. E’ necessario provare sincere emozioni in quella direzione, crederci, aderirvi emotivamente. Mujdeci sembra invece credere di più alla legge del più forte, a un’idea di lotta per la vita combattuta coi denti e con le unghie, a un universo di sopraffazione decisamente poco condivisibile. In tal senso, appare un ulteriore giro di vite sull’ipocrisia il finalino appiccicaticcio in cui Aslan dice di non voler fare più combattere il suo cane, che, poveretto, ha combattuto davvero fino a dieci minuti prima. Di nuovo, il peccato originale di Mujdeci è non credere ai propri enunciati, fingendo di crederci. Questa sì è una vera pietra tombale su un’opera cinematografica.

INFO
La scheda di Sivas sul sito della Biennale.
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