Dal ritorno

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Dal ritorno, una coproduzione belga, francese e italiana che vede coinvolta anche la Citrullo International di Carlo Hintermann e Gerardo Panichi, è una discesa negli abissi dell’Olocausto da parte del documentarista Giovanni Cioni, che si avvale delle memorie e dei racconti di Silvano Lippi, ex sergente sopravvissuto a Mauthausen che prima del 2000 non aveva mai avuto il coraggio di esporre pubblicamente il suo luttuoso passato.

Di ritorno dal paese dei morti

Presentato al pubblico a 70 anni dalla liberazione di Auschwitz, il film di Cioni mette in scena un’intensa conversazione fra due generazioni che, accompagnandoci tra le immagini del presente e del passato, ricostruisce un trauma incancellabile della nostra storia. Dal ritorno è stato presentato in anteprima internazionale al festival parigino Cinéma du Réel nel marzo del 2015. [sinossi]
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Dal ritorno, il nuovo film del documentarista toscano ma di natali parigini Giovanni Cioni, unico italiano in concorso allo scorso Biografilm Festival di Bologna, conferma la radicale vocazione antropologica di un regista ruvido e impudico, il cui cinema è disposto ad assegnare all’umano una centralità talmente imprescindibile da non temere affatto la compresenza di elementi disturbanti e lirici, esattamente come accadeva nel recente Per Ulisse. Un aspetto, quest’ultimo, che nell’arte di Cioni non si circonda mai di ambizioni auliche ma rimane sempre e comunque ancorato al prosaico, nel senso migliore del termine. Sembra dunque voler invocare, in maniera ostinata e autentica, una poeticità tangibile, priva di orpelli, scolpita nella concretezza di un dramma privato (e collettivo), di una testimonianza diretta, di un orrore vissuto e mai idealizzato.
Dal ritorno riparte proprio dal precedente Per Ulisse, film vincitore del Festival dei Popoli di Firenze, vale a dire da un essere umano solo con il proprio passato e con le scorie che esso riversa sul suo presente, come avveniva con i drop out per i quali Cioni aveva opportunamente e meritoriamente scomodato echi odisseici. Un protagonista di ritorno, stavolta per davvero e non solo metaforicamente, dal paese dei morti, un anziano militare dagli occhi addensati d’ombre e di fantasmi. L’incarnazione di una vita tratta in salvo per miracolo, che pare convivere in ogni singolo istante non con un qui ma con un altrove, quel buco nero della Storia e della coscienza condivisa, l’Olocausto appunto, che non si sa perché ha deciso di non inghiottirlo e di risparmiarlo.

Silvano Lippi, ex sergente fiorentino che lasciò le armi in seguito all’armistizio e fu deportato a Mauthausen non prima di essere tacciato dai fascisti di essere un disertore e un traditore, somiglia dopotutto a una carcassa svuotata da ogni sussulto, resa inerte e paralizzata dal peso degli abomini che ha visto ed esperito sulla propria pelle a prezzo di tutto ciò che un uomo può avere di più intimo e necessario, a partire dall’onore fino ad arrivare alla propria decenza e vergogna. Racconta, accosta aneddoti che definire dolorosi e laceranti è un gentile eufemismo, inanella dettagli e cartoline dall’inferno, che giustapposte una all’altra vanno a delineare una fenomenologia orale del ribrezzo che è quanto di più profondo e vibrante si possa chiedere, non solo a un film-intervista ma anche a un corpo e un’identità martoriati come quelli di Lippi. Che ha finalmente trovato il coraggio, dopo tanti anni di silenzio e di tacita metabolizzazione, di farsi pura oralità, testimonianza vivente, monito in carne e ossa di un calvario talmente grande da essere, lì per lì, impossibile da tramandare, tradurre in parole, trasformare in immagini da riferire al prossimo e persino ai propri familiari, che in principio di fronte all’espressionismo estremo delle sue descrizioni rimasero increduli, ostentando scetticismo.
È la premessa da cui muove anche Son of Saul di László Nemes, film coevo al lavoro di Cioni e premiato all’ultimo Festival di Cannes, che sulla non rappresentabilità dell’Olocausto costruisce ossessivamente il proprio uso del fuori campo e del fuori fuoco, al servizio di una messa in scena iconoclasta che l’altrove di cui si parlava sopra costringe a immaginarlo e dunque lo restituisce potenziato, accresciuto dalla vergogna e dalla nausea, dall’incredulità e dalla mestizia che ci assale automaticamente nel momento in cui volgiamo il pensiero (basta questo, anche senza il supporto dello sguardo) a quanto di più ripugnante l’uomo abbia prodotto nella sua Storia recente.
Anche Lippi, come il Saul Ausländer protagonista del film di Nemes, da quanto apprendiamo da uno dei suoi resoconti più shockanti, fece parte del Sonderkommando e pertanto dovette ripulire le camere a gas, districare i cadaveri intrecciati e ricoperti di urina, feci e vomito.
Il fuori campo, nel film di Cioni, è invece tutto mentale, ma sa anche trovare strade viscerali di coinvolgimento: è nella testa di chi ascolta, ovviamente, ma ancor prima nel cuore sanguinante di Lippi e nelle punteggiature emotive con cui il sergente contrappunta e intervalla i suoi racconti, lasciando che sia un pianto a spezzarli e permettendo all’apice della commozione di far breccia tra le sue memorie e di renderle tanto più vere quanto più bagnate di lacrime. Un’anima senza più difese e paraurti, quella di Lippi, che si dona alla macchina da presa nella sua fragilissima assenza di sovrastrutture: un uomo ridotto al nocciolo delle emozioni primarie è proprio ciò che Cioni ci mostra, riflettendo inevitabilmente e in filigrana sul cataclisma che dev’essersi abbattuto sul suo protagonista, sulle macerie che la convivenza prolungata col terrore gli ha generato dentro, radendo al suolo ogni briciolo di speranza e lavorando su una reificazione lenta, inesorabile e inevitabile, in virtù della quale nulla si può dimenticare e il cervello torna sempre dove non dovrebbe, paralizzato dalla coazione a ripetere più invalidante e sadica che si possa immaginare.

Dell’impianto stilistico di Cioni, così discreto e cauto, anche quando si ritrova a filmare dal di dentro le grate esterne e la stanze di Mauthausen in un finale contemplativo, dolente e assorto, stupisce soprattutto, come già in Per Ulisse, l’uso delle didascalie, che nel linguaggio imbalsamato e codificato della media della produzione documentaria è tutt’al più un completamento, un’accelerazione frettolosa, un escamotage tappabuchi adoperato comodamente in luogo di ciò che è fin troppo arduo sperare di concretizzare sullo schermo. In Dal ritorno le didascalie di Cioni, alcune delle quali rivolte direttamente a Silvano Lippi, sono invece anzitutto degli strumenti di autoanalisi del proprio lavoro e vengono dunque ad assumere un valore pragmatico, attivo e generativo. Ma spesso sono anche dei dispositivi per instaurare struggenti invocazioni epistolari indirizzate a quell’uomo che ha accettato di fare da soggetto al film, elevato dal regista a sommo referente, del quale evocare anche la vita nonostante tutto ordinaria e le foto di famiglia, e mai declassato a mero sottoposto, da scrutare e posizionare davanti alla macchina da presa costringendolo a testimonianze che fossero torsioni o forzature spettacolari della realtà.
“Della mi vita non mai cancellato niente, l’è come un cinematografo”, dice a un certo punto Lippi, creando un’involontaria sovrapposizione tra il suo memoriale e la maniera, intima e preziosa, con cui Cioni, per citare le parole dello stesso Nemes a proposito del suo già citato Son of Saul, non ci parla mai di sopravvivenza, come altri film sull’Olocausto, ma sempre e comunque di morte. E in questo caso, una volta di più, anche di morte al lavoro.

Info
La scheda di Dal ritorno sul sito del Biografilm Festival
Dal ritorno sul sito di Giovanni Cioni.
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