I’m Magic

I’m Magic

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Sidney Lumet, il mago di Oz, Diana Ross, Michael Jackson e il “musical al neon” anni Settanta. Impensabili accostamenti per un clamoroso flop al botteghino di fine anni Settanta. Ma I’m Magic mostra imprevedibili linee di coerenza col mondo espressivo di Lumet. In dvd e blu-ray per Pulp Video e CG.

Una rivisitazione “all-black” in chiave di musical soul e disco della storia di Dorothy, non più bambina ma insegnante zitella sbalzata nel mondo parallelo di Oz, accompagnata da tre strani amici (Spaventapasseri, Omino di Latta e Leone) verso la Città di Smeraldo, in mezzo a lotte tra streghe e con la nostalgia di casa… [sinossi]

Che cosa c’entra Sidney Lumet con il mago di Oz? Si direbbe poco o nulla in apparenza, e anche oltre le apparenze. È vero che nella sua lunga carriera Lumet si è caratterizzato per uno spiccato eclettismo realizzando capolavori così come opere meno buone o dimenticabili. È altrettanto vero che con I’m Magic Lumet si concedeva per la sua unica volta a una produzione mastodontica, costruita intorno al divismo di Diana Ross e alla nascente popolarità di Michael Jackson con grandi aspettative di risultati al botteghino. I quali furono ampiamente disattesi, dando luogo a un memorabile flop che di fatto affossò la carriera d’attrice di Diana Ross, fino a quel momento foriera di lusinghiere soddisfazioni (per La signora del blues, 1972, ottenne anche una candidatura all’Oscar per migliore attrice).
Che cosa c’entra Sidney Lumet con il musical? Meno ancora. Davvero bizzarro associare la figura di un autore aspro e pessimista, spesso sottilmente anti-hollywoodiano, a un genere così alieno alle sue corde, un canone puramente americano in perfetta e coerente simbiosi con l’ideologia entusiastica e positiva di tutta una nazione. Oltretutto lungo gli anni Settanta Lumet aveva vissuto una sua seconda giovinezza, in cui è possibile rintracciare tre dei suoi capolavori più indiscussi (Serpico, 1973; Quel pomeriggio di un giorno da cani, 1975; Quinto potere, 1976). Per cui non è una sorpresa scoprire che Rob Cohen, produttore di I’m Magic, si rivolse a Lumet come seconda scelta, poiché il regista designato, John Badham (assai più avvezzo alla cultura disco; era fresco reduce da La febbre del sabato sera), si rifiutò di girare una rilettura de Il mago di Oz con una protagonista di ben 33 anni nei panni di Dorothy.

Tuttavia, senza voler sposare la “politique des auteurs” a tutti i costi, Lumet riuscì in qualche modo a personalizzare pure un’occasione cinematografica sulla carta così distante dal suo mondo espressivo, e rivisto oggi I’m Magic (assurdo titolo italiano che sostituisce l’originale The Wiz) non merita assolutamente la fama di colossale spreco di talenti e denaro che si porta appresso. All’epoca si trattò del musical più costoso della storia del cinema americano, soprattutto per la scelta di girare buona parte del film all’aperto nello scenario “naturale” di New York con centinaia di comparse. È una prima chiave attraverso la quale rintracciare la mano personale di Sidney Lumet, che sceglie di risciacquare il mondo dorato, chiuso e autoreferenziale del musical classico in un bagno di grigiore urbano.
Non sarà certo necessario fare una breve sintesi della storia di Dorothy, sbalzata dalla casa degli zii nell’universo parallelo di Oz, dominato dai conflitti tra quattro streghe in guerra tra loro. Il mago di Oz appartiene ormai al dominio pubblico universale della cultura occidentale, sia per i racconti originali di L. Frank Baum, sia per le numerose trasposizioni cinematografiche, da Victor Fleming a Sam Raimi tanto per citare i più noti.
I’m Magic deriva però da un musical di Broadway (libretto di William F. Brown, musiche e canzoni di Charlie Smalls) che aveva ricollocato i viaggi di Dorothy e dei suoi amici Spaventapasseri, Omino di Latta e Leone in un contesto all-black, seguendo la retorica da exploitation afroamericana che si era delineata come una tendenza tipizzante di tutto un decennio statunitense in vari settori dell’espressione artistica (musica, cinema, teatro). Quando s’iniziò a parlare di una versione cinematografica del musical, Diana Ross s’impuntò di interpretare Dorothy, e così il giovane Joel Schumacher, a cui era affidata la sceneggiatura, pensò bene di trasformare la piccola e gioiosa bambina del racconto in un’insegnante pressoché zitella, fonte di grandi preoccupazioni per gli zii che vorrebbero vederla sistemata. Il parterre musicale fu ulteriormente arricchito con l’aggiunta di nuove canzoni scritte appositamente per il film da Quincy Jones, col risultato di zavorrare con altri quintali di saccarina un carrozzone a rischio d’affondamento stile Titanic.

Fatte salve le doti canore, dispiegate a ogni piè sospinto per mielosissime melodie, Diana Ross risulta totalmente inadeguata al contesto, svariando in una gamma espressiva che va dagli occhioni sgranati della meraviglia alle guance rigate da lacrime per la nostalgia di casa. Così come la performance canora del finale, tutta in primo piano, rischia di ridurre quasi a film-concerto un musical di oltre due ore che fino a quel momento Lumet ha fatto di tutto per salvare tramite intelligenti letture registiche. Perché, lo ribadiamo, a suo modo I’m Magic appare anche un interessante ed estremo tentativo di appropriazione autoriale nei confronti di un genere alieno e distante.
Gli anni Settanta del cinema americano sono infatti anche il decennio della messa in crisi di un intero genere che in precedenza aveva sempre guadagnato onori e fortune. Col nuovo decennio il musical viene costantemente messo in crisi, rivisitato, violentato, a cominciare dall’intrusione di nuove sonorità che spesso apparentano il musical riformato alla rock opera. Stavolta la contaminazione è effettuata tramite l’invasione della musica soul e della disco, ma a conti fatti I’m Magic non somiglia a niente, e si profila invece come una vera e propria creazione sui generis, lontana da codici predefiniti. Ne è prova il fatto che sia praticamente impossibile individuare un pubblico di riferimento. Non è indirizzato ai bambini (troppo “serio”, troppo concreto, assai poco fiabesco, rarissimi gli effetti e le meraviglie), non agli adulti (per quanto rivisitato, il racconto resta sostanzialmente una fiaba), e tutto sommato nemmeno ai fan coevi di Diana Ross, che di sicuro non si saranno strappati i capelli nel delirio orgiastico sentendola cantare per più di due ore che vuol tornare a casa. A suo modo, I’m Magic appare invece un’opera concettuale sull’idea stessa di musical, sui suoi fondamenti culturali e sul suo significato all’interno di una società dello spettacolo. Anzi, di una società-spettacolo. Adotta esteriormente i tratti del consueto “musical al neon” anni Settanta, ma lo scardina dall’interno tramite precise scelte espressive.

A ben vedere, già il testo originario di L. Frank Baum si radica in una riflessione tormentosa e inquietante sulle capacità proditorie dell’illusione (il mago è un ciarlatano, e i suoi strumenti di dominio delle masse si fondano sulla potenza dell’illusione ottica), ciò che sarà intuito e valorizzato da Sam Raimi nel suo Il grande e potente Oz (2013), legando intelligentemente la storia del ciarlatano alle origini del cinema. Sidney Lumet si muove su coordinate imprevedibilmente simili, prendendo le mosse innanzitutto da una passata di grigio sulle meraviglie audio-video del musical. Non più gli sdolcinati balletti e i colori squillanti del musical girato tutto in studio, ma le grigie albe sullo skyline di New York, cumuli d’immondizia e scenari post-industriali se non post-apocalittici; non più l’oppio dei popoli vagamente lisergico del “mondo verde” di Oz, ma la messinscena di una messinscena, in cui il direttore dello spettacolo rappresentato è una sorta di dittatore, e gli esseri umani finiscono schiavizzati da manipolazioni del gusto tutte fondate sull’immagine. In pratica, I’m Magic finisce per essere in perfetta e bizzarra coerenza con il Quinto potere di appena due anni prima, cupissimo pamphlet contro il nascente mostro televisivo.
Secondo tale ragionamento Lumet utilizza il canone di una fiaba universalmente conosciuta, un vero e proprio oggetto di culto americano, per trasformarlo in pamphlet politico e attaccare nelle fondamenta una società occidentale in rapida trasformazione verso società dell’immagine.
Tra i vari episodi in tal senso riusciti, basti pensare alla mastodontica coreografia dell’arrivo nella Città di Smeraldo (non a caso identificata in New York, anzi nel World Trade Center; e fa un effetto enorme rivedere oggi una sequenza così colossale ambientata in mezzo alle Torri…) in cui il mago di Oz ordina mutamenti di gusto nelle masse grazie solo al fascino della sua voce e a cambiamenti cromatici, mentre la folla di ballerini obbedisce passivamente adeguandosi a nuovi, rapidamente cangianti fanatismi di moda. Lo stesso può dirsi per l’ambientazione urbana, per i mostri della fiaba originale che si riconvertono in oggetti mutanti nel sottosuolo della metropolitana, e per i cenni scopertamente polemici nella rappresentazione della società dominata dalla Strega Cattiva Evilleen (“Lavora! Lavora! Lavora!”), un’evidente e visionaria sineddoche per tutta la società capitalistica e la sua aberrante ideologia.

In pratica I’m Magic assume i contorni di un musical messo tutto tra parentesi, che critica e contesta nell’esatto momento in cui sembra affermare. Nei testi delle canzoni domina incontrastato l’ottimismo della volontà, acritico e astorico, che fa da fondamento a tutta un’ideologia americana, ma Lumet lo mette in diretto contrasto con le scelte scenografiche. Da un lato la forza e la determinazione di Dorothy, la sua capacità di infondere coraggio agli altri; dall’altro, i relitti di un mondo davvero poco immaginifico, reduce di una guerra non meglio definita, sostanzialmente il mondo reale della miseria e della distruzione che si cela dietro alle illusorie “magnifiche sorti e progressive” della cultura americana. In modo ancor più scoperto e dichiarato I’m Magic vuol essere anche una grande metafora della “Black Freedom”, conquista di almeno tre decenni di lotte che trovava la sua definitiva affermazione (soprattutto in termini di visibilità sociale) proprio negli anni Settanta. Valga per tutte la sequenza della liberazione degli schiavi di Evilleen, in cui gli uomini di colore a lei asserviti si spogliano dei ridicoli costumi di scena per sfoggiare il proprio vero corpo. Liberarsi dei costumi, ovvero di tutti quei luoghi comuni deformanti del “buon schiavo negro”, corroborato anche da tanta cattiva letteratura, per riconquistare una propria e specifica fisionomia umana.
Se si fa eccezione per il film-videoclip Moonwalker (1988), I’m Magic è anche l’unico film in cui Michael Jackson appare alle prese con un vero personaggio. Lo Spaventapasseri sembra tagliato a sua perfetta misura, a metà tra il giullare di corte e il malinconico Pierrot. È uno dei pochi motivi per cui I’m Magic si è guadagnato un suo limitatissimo culto internazionale tra i fan del cantante. Eppure, dietro a tanto dispiegamento di forze e apparente impersonalità professionale, Lumet decostruiva e metteva in crisi un intero genere cinematografico e un’intera cultura. Se si fa la tara agli inevitabili segni del tempo (impossibile non ridere davanti a certi eccessi kitsch anni Settanta), ritroviamo l’autore di sempre. Onesto, arrabbiato, ma di rabbia sobria e poco declamata. Quella dei saggi.

Extra
Trailer originale, interviste d’epoca a Sidney Lumet e Rob Cohen, galleria fotografica.
Info
La cheda di I’m Magic sul sitodi CG Entertainment.
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