Intervista a Gianluca e Massimiliano De Serio
Con I ricordi del fiume, Gianluca e Massimiliano De Serio, partendo dalla documentazione degli ultimi mesi di vita del campo nomadi Plat di Torino, hanno realizzato un film che ragiona sull’universale concetto di casa/rifugio. Li abbiamo intervistati a Venezia.
Quand’è che avete deciso di girare il vostro documentario I ricordi del fiume? Nel momento in cui avete saputo che il Plat, il campo nomadi alla periferia di Torino in cui è ambientato il film, sarebbe stato sgomberato?
Massimiliano De Serio: Sì, c’era già la voglia di conoscerlo meglio attraverso un film perché comunque ci eravamo già stati, visto che vi avevamo girato un paio di scene di Sette opere di misericordia. E in quell’occasione l’avevamo anche ricostruito in maniera un po’ più astratta, in un altro posto lì vicino. Molto tempo prima avevamo conosciuto il Plat perché avevamo partecipato a un’iniziativa di volontariato per pulire le sponde della Stura, che è il fiume che si trova proprio lì a fianco. Poi negli anni ci sono stati gli incendi, i fumi, il rapporto difficile con il quartiere, contrasti che purtroppo sono sempre stati forti. Finché non è arrivata la notizia che avrebbero dovuto sgomberarlo…
Quando è arrivata questa notizia?
Massimiliano De Serio: A gennaio del 2014, quando vi abitavano circa 1200 persone. E dissero che entro un anno sarebbe stato sgomberato tutto. In realtà poi sono passati quasi due anni e c’è ancora un piccolo nucleo di una ventina di baracche. Quando abbiamo saputo questa notizia, ci siamo subito detti: andiamo e capiamo che percezione hanno del progetto di smantellamento le famiglie che vi abitano. E la cosa incredibile che abbiamo scoperto è che nessuno sapeva nulla.
Gianluca De Serio: È stata questa una mossa della Prefettura: tenere tutto segreto e scegliere ogni tanto una famiglia cui assegnare un appartamento, in base a un censimento fatto un anno prima dal Comune. Un anno prima!
Massimiliano De Serio: Sì, assurdo, perché le cose cambiano in modo vorticoso in questi luoghi. E invece loro si sono affidati a un censimento vecchio, provvisorio e parziale. In più non hanno detto nulla alle famiglie che vi abitavano, e noi invece abbiamo cominciato a dirlo subito a tutti quelli che incontravamo. E perché? Perché la nostra non doveva che essere un’azione di sincerità: siamo qui per fare questo film e vogliamo raccontare questo luogo prima che scompaia. Il nostro obiettivo era anche far capire a loro che era importante per tutti mantenere un ricordo di quel posto che stava per scomparire. Se invece gli avessimo detto: “Vogliamo raccontare la vostra vita”, non avrebbe avuto senso e non sarebbe stato neppure corretto nei loro confronti. Anche perché non era vero, non volevamo genericamente raccontare le loro vite. Sì, volevamo conoscere la loro vita, ma attraverso quel posto.
Infatti il Plat, ancor più dei personaggi che sono in scena, è sostanzialmente il protagonista del film.
Massimiliano De Serio: Sì, è così. Abbiamo pensato di dare corpo a questo titolo, I ricordi del fiume, cercando una struttura e uno sviluppo dei personaggi che seguisse sì una narrazione e un micro-sviluppo, ma cercando di fare in modo che i frammenti delle loro storie arrivassero a formare un mosaico che non è il loro, quanto quello del luogo. Ci siamo detti: non dobbiamo e non possiamo pretendere di raccontare la vita, la storia di uno o più uomini del campo Rom, quanto raccontare la storia di un luogo attraverso dei frammenti di vita.
E lo sgombero che avete documentato voi nel finale del film non è stato quindi quello definitivo
Gianluca De Serio: È stato l’ultimo grosso sgombero, avvenuto a febbraio-marzo di quest’anno.
Massimiliano De Serio: E in realtà, dopo questo sgombero, abbiamo continuato a girare, ma in fase di montaggio abbiamo deciso di far finire il film in quel punto perché era decisamente più significativo. C’era stato un altro sgombero un po’ di tempo prima, nel luglio del 2014. Perché il Plat era diviso in tre parti, in tre settori. Quindi hanno smantellato settore per settore. Quelle poche baracche che sono in piedi ancora oggi, tra l’altro, hanno anche subito un incendio di recente, e a breve ci saranno gli ultimi sgomberi coatti.
Per tornare al titolo, I ricordi del fiume, c’è un momento – dopo circa un’ora e mezza di film e poco prima del grande sgombero – in cui si vede una ripresa sconvolgente del fiume Stura che costeggia il campo. Voi siete sulla barca e si vede il campo nomadi per la prima volta di spalle. E si possono osservare ad esempio gli impressionanti cumuli di spazzatura che digradano fino alla riva del fiume, con quest’aria brumosa, inquietante… È un momento visionario, sembra quasi Apocalypse Now.
Gianluca De Serio: Sì, ci piaceva molto questa cosa. Perciò siamo saliti sulla barca con un poliziotto, che in realtà non era un vero poliziotto, perché diciamo che il suo compito era esclusivamente quello di monitorare le sponde del fiume. Ci interessava fare quella ripresa anche perché si capisce che, nonostante attraversi da anni quel tratto di riva, quel poliziotto non sa nulla del campo.
Ma in che momento avete deciso di fare questa ripresa?
Gianluca De Serio: Sin dall’inizio avevamo avvertito la produzione che avremmo voluto fare delle riprese dal fiume Stura. Però lì non si può andare con una barca qualunque, devi per forza essere accompagnato dalla polizia perché si tratta di acque non navigabili, perciò siamo riusciti ad andarci dopo circa un anno di lavoro, era gennaio. E in quel momento, dopo essere stati dentro al campo Rom per così tanto tempo, usciamo praticamente per la prima volta. Ci interessava avere questo controcampo assurdo, una prospettiva che non è normale e che, dato che da lì non si può passare, nessuno ha mai visto.
Massimiliano De Serio: Sì, in realtà del Plat, abbiamo molte riprese da fuori, dalla strada, dalle diverse entrate. Però alla fine abbiamo deciso di tenere nel film solo questo di paesaggio, che è proprio un altro punto di vista, più astratto, più assoluto: il fiume Stura e il suo Plat.
Gianluca De Serio: E poi c’è anche da dire che, a partire da quel punto, si va – dal punto di vista narrativo – proprio verso la distruzione del Plat. E quindi ha anche un significato simbolico.
Massimiliano De Serio: Comunque, per tornare all’impostazione generale del film, ci piaceva – e ammettiamo il rischio che ci siamo presi – l’idea di affrontare questa immersione graduale, senza dare l’illusione di dover per forza raccontare delle vite, delle storie. Per noi questo aveva anche il significato di un gesto di onestà, non soltanto nei confronti dello spettatore, ma soprattutto nei confronti di chi riprendevamo. Vale a dire che ci siamo posti tra lo spettatore e gli abitanti del campo. Perché a chi ci ha detto – e ci è capitato – che avremmo dovuto immedesimarci negli spettatori che guardano questo film di due ore e venti, a chi ci ha detto che avremmo dovuto dare degli appigli proseguendo magari le storie dei personaggi, noi rispondiamo che non volevamo cadere proprio in questo, nella retorica dell’immedesimazione, né con lo spettatore, né soprattutto con chi è in scena. Perciò, qual è il nostro ruolo, qual è il nostro punto di vista? È un punto di vista fluttuante, di chi si trova in qualche modo nel mezzo.
E comunque un movimento c’è, un appiglio se lo vogliamo chiamare così. Ed è quello di vedere e seguire, tra gli abitanti del campo, chi resta e chi parte, chi rimane al Plat e chi invece va nei nuovi appartamenti. Vedere quindi come cambia la loro vita, come migliora o come peggiora.
Massimiliano De Serio: Sì, perché secondo noi il centro del film, un centro fisico e metaforico, è la casa. Che è una cosa che viene fuori da un dialogo molto importante che c’è all’interno di I ricordi del fiume, quello tra il bambino e l’uomo che è stato in carcere. Quest’ultimo dice al bambino: “Noi siamo come delle lumache e ogni volta ci portiamo sempre tutto appresso”. La casa è il modo attraverso cui noi scopriamo queste vite e questi personaggi, ma è anche il modo in cui scopriamo questo luogo. Non abbiamo voluto riprendere in modo tradizionale il Plat. Infatti, il film inizia con noi che siamo già dentro: c’è nell’incipit una breve passeggiata del bambino all’aperto e poi siamo dentro una casa, poi siamo dentro a un’altra casa, e così via…
Gianluca De Serio: E persino nel momento in cui una certa casa viene distrutta, noi siamo lì…
Massimiliano De Serio: Siamo con loro. E stare con loro vuol dire trovarsi dentro alle loro abitazioni provvisorie, che sono in via di distruzione, ma che comunque sono pur sempre delle case.
Sì, ho trovato molto interessante anche il fatto che abbiate deciso di seguire chi si vedeva assegnare un appartamento dentro un condominio. Entrate con loro in queste quattro mura completamente vuote, quasi agghiaccianti nel loro essere del tutto spoglie.
Gianluca De Serio: Già, e infatti su queste scene abbiamo lavorato con dei colori diversi, puntando su una sorta di monocromia, un quasi beige che contrasta con la brillantezza e la vividezza del campo, che al contrario è pieno di colori. In quei nuovi appartamenti, invece – lavorando su quanto era già evidente – abbiamo deciso di dare un’immagine diversa, più neutra, più asettica.
E aggiungerei che in questo spostamento negli appartamenti vuoti si vive anche in via indiretta il senso della fine di una comunità, quella del Plat, destinato per l’appunto a scomparire.
Gianluca De Serio: Questo è il senso. È il senso un po’ di tutto. Infatti all’inizio li abbiamo ripresi spesso insieme, ad esempio nel momento della preghiera, quando sono tantissimi. Mano a mano invece i personaggi sono sempre più soli e li abbiamo quindi ripresi in inquadrature in cui appaiono come frammentati, sospesi.
Massimiliano De Serio: Infatti, da un certo punto in poi, queste inquadrature diventano dei ritratti, nel senso letteralmente pittorico. Sono sospesi anche perché si trovano ad essere sciolti dal loro contesto.
E mi viene in mente anche la sequenza in cui vediamo la famiglia che, nel nuovo appartamento, è piazzata davanti al televisore acceso, sedotta dal tubo catodico e completamente estranea al diverso contesto in cui si trova a vivere.
Gianluca De Serio: Sì, è proprio quello che intendevamo mostrare. Infatti, appena siamo arrivati in quella casa, abbiamo trovato il televisore acceso, poggiato a terra. Era quella la prima cosa che avevano fatto, piazzare una TV. E davanti alla TV c’era il bambino che stava guardando il papa che parlava. L’abbiamo subito ripresa quella scena, perché ci sembrava molto significativa. Abbiamo pensato, infatti: cosa gli stiamo vendendo, qual è il modello di civiltà che stiamo proponendo? Un posto, un appartamento, in cui piazzare un televisore e niente più.
Da queste sequenze, quella del bambino davanti alla TV o quella di tutta la famiglia sempre davanti al televisore, o ancora quando li vediamo affacciati alla finestra, traspare un assordante senso di desolazione.
Gianluca De Serio: Già, e chi è che ci rimette di più in tutto questo? La comunità del Plat, che si disgrega sempre di più. Una comunità, tra l’altro, checché se ne dica, che era già assai fragile, che già viveva di tante divisioni. Infatti il progetto di assegnazione dei nuovi appartamenti, riservato solo ad alcuni abitanti del campo, ha inevitabilmente creato dei conflitti interni, come si vede in almeno un paio di sequenze, in particolare quella dell’uomo con la barba che urla contro gli altri, perché si lamenta di non essere stato incluso e di non essere stato avvertito.
Massimiliano De Serio: Si capisce che il censimento che ha stabilito chi aveva diritto a una casa e chi no è stato fatto in modo quantomeno strano. Chi ad esempio non era presente nelle due settimane in cui è avvenuto il censimento – c’era ad esempio qualcuno che era tornato in Romania per qualche giorno – si è trovato ad essere escluso, nonostante abitasse al campo da più tempo di quelli che erano stati inclusi. In questo modo poi si finisce per ritrovarsi gli uni contro gli altri. Dall’inizio di questo progetto alla sua conclusione, perciò abbiamo assistito al graduale disfacimento di una comunità. Ma la cosa interessante è che queste comunità tendono sempre a ricomporsi. Così come è facile ricostruire una baracca, allo stesso modo ci si sposta e si cerca di ricreare qualcosa. Infatti, alcune di quelle famiglie che non erano state incluse nel censimento hanno trasferito le loro cose in nuove abitazioni di fortuna in altri campi abusivi. E, a proposito di questo, abbiamo fatto anche uno spettacolo teatrale che si chiama Dissolvenze, dove in cinquanta minuti tre uomini del Plat costruiscono una baracca, mentre in contemporanea tramite delle proiezioni video assistiamo alla distruzione di altre baracche. Non è quindi così difficile costruirsi una casa, soprattutto per loro che sono abituati a cambiare. Il problema però è che, se si lavora sempre nell’emergenza così come questa politica ci obbliga a fare, visto che le campagne elettorali sono molto frequenti e visto che ci si sente spinti dall’opinione pubblica, allora ti ritrovi a risolvere dei problemi – o a far finta di risolverli – in poco tempo. Perciò, nel caso del Plat, si è data sì l’opportunità ad alcuni di andare ad abitare in nuovi appartamenti, però nel contempo si è data anche l’illusione ad altri di poterci restare, cosa che non succederà. Molti infatti stanno già andando via, perché non hanno la possibilità di pagarsi queste nuove abitazioni…
Davvero?
Massimiliano De Serio: Sì, stanno andando via, e in più la comunità si è divisa. Si ricostruiranno altri luoghi, uguali a quello di adesso, che però aveva una sua storia, perché esisteva da quindici anni. E allora qual è il risultato? Solo un ennesimo caos. Un ennesimo atto di provvisorietà. Perché allora abbiamo deciso di fare un film in due anni, di farlo con una durata così lunga? Perché forse solo nel cinema – o, anzi, almeno nel cinema – chi si prende il rischio di vedere un film così lungo, entra in un processo, può entrare in un discorso fatto per l’appunto di memoria. E in tal senso l’abbiamo intitolato I ricordi del fiume. Perché i protagonisti del film non hanno ricordi, non li abbiamo noi di loro e loro non ce l’hanno di se stessi. Del resto, la cosa che ci ha anche molto commosso quando eravamo lì è stata la loro richiesta continua di poter vedere le immagini che giravamo. Sul momento non potevamo farlo perché eravamo ancora in fase di riprese e dovevamo cominciare il montaggio, però ci siamo detti: almeno gli possiamo dare delle foto del girato. E così abbiamo fatto. E quelle immagini, incorniciate, sono diventate dei ricordi anche per loro. Se tu vai adesso nelle baracche che ci sono ancora, o anche nelle case nuove, tutti quelli che abbiamo conosciuto hanno un quadretto che gli abbiamo fatto noi.
Questo discorso della comunità del Plat che va a distruggersi si fa metafora della fine di ogni comunità. Penso alle baraccopoli che c’erano a Roma negli anni del boom economico. Se vogliamo, perciò è possibile instaurare un processo di identificazione anche attraverso questo meccanismo.
Massimiliano De Serio: Sì, noi ad esempio abbiamo pensato subito alla storia della nostra famiglia. I nostri genitori sono figli di immigrati dal Sud Italia e dai loro racconti, dalle immagini che ci facevano vedere, dalle fotografie d’epoca, ci si può benissimo rendere conto di quanto la situazione fosse simile. Le baracche di allora erano identiche a queste. E poi c’era il razzismo nei confronti degli immigrati, con le scritte nei condomini: non si affitta ai meridionali. Certo, la differenza però qual è? Che loro sono i paria della nostra società e hanno perso anche la loro tradizione zingara. Adesso sono dei Rom rumenizzati e in parte sono anche italiani perché hanno avuto relazioni con gli italiani. Vengono cacciati da ogni dove e in più, nelle nostre città, vengono messi nelle condizioni di risultare invisibili, nel senso che sono fisicamente nascosti. Il Plat ad esempio non si vedeva. Si capiva che c’era un campo, solo perché lì davanti c’era dell’immondizia. Le case invece erano nascoste, era come se non esistessero. E anche gli altri campi della città sono costruiti in luoghi che sono il più nascosti possibile alla vista del quartiere, della società. All’epoca invece le baraccopoli italiane si mangiavano la città, era quella la vera periferia. Poi hanno costruito questi palazzi anni Sessanta, che sono brutti esteticamente – anche i nostri genitori sono andati ad abitare in uno di quei primi palazzi dove all’epoca c’era la campagna – ma lì sono nate generazioni e generazioni di meridionali trapiantati al Nord. E invece a queste persone, a queste comunità, non è data la possibilità di trapiantarsi in una città, di inserirsi in un tessuto urbano. Non esistono.
Gianluca De Serio: E, del resto, la micro-economia su cui si basano loro è tutta economia sommersa, basata sui rifiuti. Loro fanno, se vogliamo, un’operazione di ri-pulizia di quello che noi gettiamo. A Torino c’è un mercato che è stato abusivo fino allo scorso anno e che finalmente è stato legalizzato, perché era talmente potente come richiamo, per tutti, non solo per le comunità marocchine o Rom, che non poteva continuare ad essere illegale. E lì troviamo tutti gli oggetti che noi buttiamo. Loro li prendono, li puliscono, li asciugano e poi li rivendono.
Qualcuno di loro si è rifiutato di essere ripreso?
Gianluca De Serio: Alla fine in pochi, ma più che altro per ragioni legali e giudiziarie.
Massimiliano De Serio: Ma noi comunque non è che chiediamo: “Volete essere ripresi?” Se li conosciamo e vediamo che sono tranquilli, cioè se c’è un rapporto di fiducia che si instaura nei primi momenti, di solito quasi subito dopo, vale a dire il giorno stesso, se non il giorno dopo, si va con la camera e si riprende. È ovvio che se ci accorgiamo che qualcuno non vuole vederci, lasciamo perdere. Alcuni ad esempio ci scambiavano per dei poliziotti, o per degli impiegati del Comune, o per dei giornalisti. Ma noi ci siamo presentati da subito come noi stessi, come registi che avevano l’intenzione di fare delle riprese.
Gianluca De Serio: Non abbiamo neanche battuto tutto il campo. All’inizio ci siamo fermati nel primo settore che abbiamo incontrato, il numero tre, a proposito del quale sapevamo che sarebbe stato il primo ad essere distrutto. E stavamo con poche famiglie alla volta, anche perché così si creava un rapporto un po’ più intenso. E poi mano a mano, attraverso di loro, conoscevamo degli altri e così via. Infatti, gli ultimi, Florian e Mariana, li abbiamo conosciuti molto più avanti e anche in questo abbiamo rispettato l’andamento delle riprese, visto che appaiono nell’ultima parte del film.
Massimiliano De Serio: Di ogni personaggio, tra l’altro, avremmo potuto fare un documentario, per la mole di materiale raccolto. Ad esempio di Mariana abbiamo il battesimo della sua bambina, abbiamo lei che sta per partire, rimpatriata per sempre. Però ci siamo detti: “Ma perché dobbiamo raccontare il destino di Mariana?” Sarebbe stato un po’ come tradirla, paradossalmente, perché ad un certo punto avremmo dovuto comunque fermarci. Se avessimo voluto davvero essere rispettosi delle loro esistenze, avremmo forse dovuto filmare tutta la vita di ciascuno di loro, ma ovviamente era impossibile. Allora, abbiamo pensato: “No, mettiamo un frammento e che sia veramente un frammento”.
Nel momento in cui siete arrivati al campo, avevate già precisa questa idea?
Gianluca De Serio: Sì, avevamo scritto un trattamento che era sviluppato per oggetti, sentimenti, luoghi, situazioni. Ognuno di questi capitoli raggruppava momenti di vita diversi che erano quelli che noi avevamo incontrato nei nostri sopralluoghi. Alcuni personaggi tornavano, altri no. Ad esempio i capitoli erano intitolati così: sigarette, accendino, amore, morte. E quello che avevamo presentato al Ministero per fare richiesta di finanziamento era un trattamento di trenta pagine tutto così, che si basava sui primi mesi di sopralluogo/ripresa. Però poi ci siamo detti: per meglio creare questa frammentazione, leviamo anche questi capitoli, non raggruppiamoli per assonanze, seguiamo invece il ritmo della vita, delle stagioni. Seguiamo il Plat.
Avete pensato al film di Jia Zhangke, Sitll Life?
Massimiliano De Serio: Sì, più che altro per la distruzione. Quello sì. Ci era piaciuto tantissimo quando lo vedemmo qui a Venezia nel 2006.
Anche quello è un film che lui ha deciso di girare perché sapeva che quel luogo, la Valle delle Tre Gole, sarebbe scomparso. Adesso poi che mi parlate di sigarette, di accendini, mi viene ancora di più in mente, perché lì c’erano quegli oggetti-cardine, capaci in qualche modo di “trattenere” la memoria.
Massimiliano De Serio: Sì, è assolutamente simile, tanto che ad un certo punto ci siamo detti che il nostro rischiava di diventare troppo simile al suo film. E l’abbiamo levato forse anche per questo motivo.
Quanto tempo avete lavorato al montaggio?
Gianluca De Serio: Paradossalmente abbiamo lavorato di più nel rivedere il girato che non al montaggio.
Massimiliano De Serio: Sì perché, mentre vedevamo il girato a velocità normale, il montatore, Stefano Cravero, che ha una grande esperienza nei documentari, si segnava delle cose. Considera che erano 200 ore di girato… E lui, in diretta, tagliava i punti meno interessanti o sporchi e divideva, selezionava, categorizzava il materiale in varie cartelle, mettendolo in ordine. In questo modo, quando abbiamo finito di visionare tutte quelle ore avevamo gli argomenti già ordinati, i personaggi tutti insieme. A quel punto ci siamo detti: “Ok, montiamo”. E da quel momento in poi ci abbiamo messo tre mesi.
Dopo il vostro esordio nella finzione con Sette opere di misericordia, siete tornati al documentario, proprio per l’urgenza di testimoniare quel che stava per accadere al Plat. So che però stavate scrivendo un nuovo film di finzione. L’avete interrotto?
Gianluca De Serio: Sì, prima ancora di cominciare a girare I ricordi del fiume, stavamo scrivendo un film di finzione. Ad un certo punto però gli eventi ci avevano costretto a fermarci, ma adesso possiamo ripartire da dove eravamo rimasti.
Massimiliano De Serio: Aggiungerei però una cosa e cioè che questo film che stiamo scrivendo ha molto a che vedere con il Plat, più di Sette opere di misericordia. Quello si calava dentro il contesto di un Plat che in realtà non conoscevamo. Questo nuovo che stavamo scrivendo partiva da un personaggio che assomiglia a uno dei tanti personaggi del Plat che abbiamo ritratto. E gli somiglia per diversi aspetti: il primo fra tutti è il suo disperato bisogno d’amore e il suo attaccamento ai rifiuti della società, alla possibilità di ricavare da ciò che noi scartiamo il senso della sua vita. E le due cose insieme sono la base del prossimo film e del nostro protagonista. Quindi devo dire che l’anno e mezzo che abbiamo dedicato al Plat ci ha impedito, come dire, di andare avanti su una sceneggiatura che secondo noi non andava nella direzione giusta. E adesso sento che è necessario per noi ricominciare a scrivere a partire da quel che abbiamo approfondito con I ricordi del fiume. Questo non vuol dire che l’esperienza del documentario sia di minore entità rispetto a quella della finzione, ma che si tratta sempre di un compenetrarsi e di un arricchirsi l’uno con l’altro.
Gianluca De Serio: Anche perché noi abbiamo sempre considerato I ricordi del fiume come la nostra opera seconda. Non abbiamo voluto trattarlo come di solito si tratta un documentario. E in tal senso abbiamo fatto richiesta di finanziamento al Ministero.
Massimiliano De Serio: In un film di finzione sei come in una bolla di vetro, ti stai inventando una realtà e la cosa bella è anche quella, che il reale vi possa trasparire, ma comunque puoi fare quello che vuoi. E, a parte che anche nel documentario fai quello che vuoi, che ognuno ha il suo stile, la sua realtà, però puoi sviluppare un qualcosa di diverso, una forma di immersione totale. Ed è questa una riflessione cui siamo arrivati con I ricordi del fiume. Non è che prima la pensassimo così, però stavolta abbiamo pensato che non sarebbero stati sufficienti i due mesi classici che si “spendono” per fare un documentario. Abbiamo sentito che servisse molto di più e che dovessimo sganciarci dal tipico racconto di una storia. Poi ogni volta è diverso, ma questa volta è andata così.
Gianluca De Serio: In effetti avremmo potuto restare lì solo un mese, tirare fuori qualche informazione, intervistare qualcuno e preparare un qualcosa che fosse molto più circoscritto e che servisse soltanto a dare un’infarinatura superficiale. Invece no, ci siamo detti: “Fino a quando questo posto non ci sarà più, noi restiamo”.
Massimiliano De Serio: Un’altra opzione che ci era venuta in mente era l’inchiesta, perché volendo potevamo tirar fuori delle cose assurde, dal censimento, dalla vita dei Rom, dal processo crudelissimo e cinico di decidere della vita e dei destini delle persone che stanno lì da dieci anni. Ma alla fine abbiamo deciso di lasciare fuori campo tutto quello che aveva a che fare con la burocrazia del progetto, e che invece venisse fuori in qualche modo l’anima, il senso ultimo, e anche le varie conseguenze nelle vite di queste persone.
A proposito di energie spese, quante ore stavate lì? Andavate tutti i giorni? E quanti eravate?
Massimiliano De Serio: Sì, quasi tutti i giorni. Noi due c’eravamo sempre, poi avevamo due fonici, un assistente e un altro operatore che è venuto ogni tanto. Per esempio gli sgomberi li abbiamo documentati con tre troupe, io con un fonico, Gianluca con un altro fonico, e l’operatore da solo con il microfono in camera.
Ma, al momento dello sgombero, la polizia non vi ha detto niente? Non ha provato ad ostacolarvi?
Massimiliano De Serio: Sì, abbiamo avuto un sacco di problemi, ovviamente non volevano essere ripresi e non volevano che riprendessimo quel che succedeva. Ma, ogni volta che ci volevano impedire di fare delle riprese, ci appellavamo al diritto di cronaca, vale a dire che ci trasformavamo in giornalisti.
Gianluca De Serio: Mi ricordo ad esempio che, all’alba dello sgombero, un poliziotto era davanti, di fronte a me, mentre io stavo facendo una ripresa larga. E lui mi fa: “Ehi tu, cosa fai? Non mi riprendere”. E io gli ho risposto: “Mi scusi, ma è lei che è in mezzo all’inquadratura”.
Massimiliano De Serio: Questa secondo me è la frase simbolo del documentarista. Di uno cioè che sta lì da mesi e che ha fatto un certo tipo di lavoro. In qualche modo noi eravamo entrati a far parte della vita di quel posto, con tutte le distanze che vuoi e con tutti i discorsi che abbiamo fatto. Era lui invece che non s’era mai fatto vedere prima. Così come gli operatori sociali o i cosiddetti militanti, che arrivavano lì a fine processo, quando si stava sgomberando e dicevano che dovevano stare lì dentro. E anche loro non si erano mai visti prima. Il problema invece è entrare dentro alle cose, dargli uno sviluppo e un contesto. Purtroppo però i Rom sono vittime della retorica, sia da una parte che dall’altra.
Gianluca De Serio: Sono vittime di etichette e pregiudizi da tutte le parti. E i discorsi dei poliziotti, noi li sentivamo, erano crudelissimi.
Massimiliano De Serio: Forse più delle altre cose che avevamo fatto prima, come anche Bakroman che era calato anch’esso in un realtà molto drammatica ma molto lontana da noi, in Burkina Faso, questo film ci ha permesso di capire come i nostri amministratori lavorino molto sulla pancia dell’opinione pubblica e agiscano di conseguenza, senza usare la testa…
Gianluca De Serio: …e a volte propongono o impongono delle cose stupide. Eppure ci vorrebbe un minimo, non dico di intelligenza politica, ma anche di buon senso. Per esempio, i Rom vengono trasferiti nelle case nuove, dove l’affitto se lo devono pagare da soli, e tu in tutti questi mesi non gli hai dato l’opportunità di imparare un mestiere o di poter praticare quello che sanno fare. In Emilia Romagna, dove ci sono tantissimi Rom esperti nella raccolta del ferro e del rame, una legge regionale ha permesso di legalizzare questa attività, e quindi loro hanno potuto formare delle cooperative di raccolta del ferro. Così compiono un’azione di riuso del materiale abbandonato, che è utile anche alla società, e allo stesso modo hanno trovato un modo per auto-sostenersi, per pagarsi l’affitto e quindi per adeguarsi a questa idea dell’integrazione che tutti pensano di volere.
Massimiliano De Serio: E poi, secondo me, bisogna anche ragionare col cuore. È vero che queste persone non votano, è vero che è come se non esistessero, ma a lungo termine, non adesso, non domani, chissà quando, ma nelle generazioni future chiunque potrà usufruire del processo di integrazione. Quindi le decisioni che vengono prese dalle autorità non sono fatte né con la testa né col cuore, ma solo con la pancia, innescando perciò un processo che crea solo altri disagi; infatti ci sono altri luoghi della città in cui la baraccopoli si sta spostando. Magari sono più sparpagliati, ma comunque questa cosa viene sentita come un vulnus, come un pericolo dal relativo quartiere e dal tessuto sociale in cui arrivano questi nuovi piccoli accampamenti. E poi le conseguenze magari sono che al Piccolo Cinema scompaiono le grondaie perché sono in rame. E per forza, perché sennò dove lo prendono il rame? Perciò vengono da noi e lo staccano. E allora è giusto che nel film Mihai racconti che ha rubato, è il suo auto-ritratto. Vuole giustificarsi, ma vuole anche rendere giustizia alla sua azione disperata, e lo fa non solo davanti a un bambino ma anche davanti alla camera.
Chiuderei proprio chiedendovi dell’esperienza del Piccolo Cinema, che avete citato appena adesso e che avete fondato qualche anno fa.
Gianluca De Serio: Beh, ad esempio, sempre partendo da I ricordi del fiume, la troupe che ha partecipato alle riprese è composta da ragazzi che vengono dal laboratorio del Piccolo Cinema, che si sono formati lì. Il fonico, per esempio, Giovanni Corona, aveva fatto dei lavori prima, ha fatto il laboratorio da noi e adesso lavora come fonico. E anche l’aiuto-regista, Guido, ha fatto questo stesso percorso.
Massimiliano De Serio: Ci piace pensare che il Piccolo Cinema, al di là del nostro contributo del momento, sia diventato a Torino un punto di riferimento innanzitutto per chi vuole andare al cinema gratis e per condividere questa passione con altre persone, le più diverse possibili. Anche perché il pubblico è molto trasversale. E ci piace anche che sia diventato un laboratorio di persone che vogliono fare cinema e che vogliono farlo in un modo che non è quello classico, da professionisti di un’industria – visto che non c’è a Torino un’industria cinematografica – ma in un modo secondo cui ci si mette insieme in piccoli gruppi e ci si aiuta a vicenda. Ed è tra l’altro proprio questa l’idea alla base del Piccolo Cinema, nel momento in cui l’abbiamo fondata tre anni fa, quella di creare una società di mutuo soccorso cinematografico. Era nata all’inizio semplicemente come una serata a settimana di visione di film che piacevano a noi o ai nostri amici, o che volevamo vedere, e poi – visto il successo – abbiamo deciso di istituzionalizzare la cosa, facendo una proiezione tutti i martedì, invitando autori più o meno noti, da Gianni Amelio al documentarista di periferia, e ribaltando anche il rapporto che di solito si ha nei cineclub o nei cinema d’essai tra spettatore e programmazione. E in tal senso infatti abbiamo lasciato nelle mani degli spettatori anche la possibilità di programmare dei cicli di film, o di fare delle proposte che noi in qualche modo abbiamo formalizzato in queste serate che si chiamano i Tricicli, dove chi vuole può proporre dei cicli di cinema a un gruppo che è sempre più ampio di persone che partecipano e coordinano tutto quanto. Però ognuno se lo deve organizzare da solo: trovare le copie, fare i sottotitoli se non ci sono, preparare degli interventi, ecc.
Gianluca De Serio: Naturalmente aiutati da noi e dai coordinatori. C’è stato ad esempio un signore che veniva sempre e poi ci è venuto a parlare dicendoci che era appassionato di cinema latino-americano e che faceva parte dell’associazione Italia-Cuba. Ci ha proposto perciò un ciclo di film cubani, una dozzina di titoli, ne abbiamo scelti otto o dieci e, una volta al mese, questo ciclo è andato avanti quasi per un anno. Poi ce n’è stato un altro che ha organizzato la rassegna dedicata ai film di Nollywood. Quindi c’è stata la proposta di un ciclo di film popolari in VHS, e con i VHS che venivano proiettati così come erano stati registrati all’epoca, con il TG prima, ad esempio. Questa è stata un’iniziativa di grande successo, tant’è che ancora adesso c’è un sacco di gente che ci porta le VHS.
Massimiliano De Serio: Perché poi la cosa bella del ciclo VHS è che abbiamo ricreato il salotto di casa, le poltrone, i sofà e pop-corn fatti da noi a casa.
Quindi le proiezioni sono sempre ad ingresso gratuito?
Gianluca De Serio: Sì. Però, ad esempio, quando dobbiamo pagare il distributore per affittare la copia, oltre a quello che si deve alla SIAE, allora passiamo con il cappello e recuperiamo le spese…
Massimiliano De Serio: …e con quei soldi ci recuperiamo da bere per la volta successiva, oppure li usiamo per sostituire una cassa o per cambiare un microfono. E adesso comunque abbiamo un ottimo sistema di proiezione, in alta definizione. Perciò, dopo Venezia, dobbiamo decidere il programma per il prossimo anno. Sarà un programma annuale già stabilito, lasciando però due martedì al mese liberi, da improvvisare. Il resto pensavamo di programmarlo e ci sono già diverse proposte, tra cui quella di un ciclo di film erotici d’autore. Vediamo…