Il calendario del cinema
Pubblicato da Artdigiland nel 2015, il volume Il calendario del cinema ovvero L’altra faccia della Luna è un annuario volutamente disorganico a opera di Lorenzo Pellizzari che – rievocando fatti accaduti in anni recenti o in epoche remote dal primo gennaio al 31 dicembre – registra fasti, miserie, lutti del mondo del cinema, muovendosi tra l’elzeviro e l’aneddotica.
In un universo editoriale come quello italiano, evidentemente in caduta libera, soprattutto per quel che riguarda i volumi dedicati al cinema, c’è chi – come Artdigiland – cerca di farsi spazio, scegliendo di volta in volta l’approfondimento di natura saggistico o l’approccio in qualche modo più popolare. Rientra in un genere quasi trasversale Il calendario del cinema ovvero L’altra faccia della Luna (sottotitolo: “365 giorni tra persone, film, momenti di riguardo – e senza riguardo”), in cui si raccolgono in volume gli interventi di Lorenzo Pellizzari, originariamente pubblicati su cineforum web; interventi che arrivano a comporre un annuario dove – dal primo gennaio al 31 dicembre – si sono scelte date particolarmente significative del passato prossimo o remoto, per riflettere sul mondo del cinema: i lutti e le nascite, i fasti e le miserie, i misteri, le storie alla Hollywood Babilonia, le curiosità, approfittando magari dell’occasione per qualche piccola stilettata.
Pellizzari tenta a volte la strada dell’elzeviro, del rapido approfondimento saggistico, ma si lascia più spesso ‘governare’ dal gusto dell’aneddotica, e non mancano in tal senso scoperte e/o ri-scoperte di particolare interesse. Attrici relegate col tempo a bui anfratti della memoria o a pagine (cartacee) ingiallite dal tempo – come ad esempio Françoise Prévost (interprete in più di 70 film e figlia di Jean, scrittore e partigiano) o Maria Luigia Attanasio (moglie di Lattuada), o ancora Lilia Silvi (che era la preferita del Duce), ma anche Brigitte Helm (protagonista di Metropolis) e Didi Perego (Morte di un amico di Franco Rossi); attori che hanno subito lo stesso destino, da Harold Russell (amputato degli arti in guerra e vincitore dell’Oscar per I migliori anni della nostra vita) a John Garfield (vittima del maccartismo), da Bruno Cirino (fratello del più noto Paolo Cirino Pomicino e morto a soli 45 anni) al leggendario caratterista Elisha Cook Jr. (Il mistero del falco, Rapina a mano armata), senza dimenticare i volti di ‘secondo piano’ che hanno fatto la storia del cinema italiano del passato, vale a dire Leopoldo Trieste, Stefano Satta Flores e, ovviamente, Franco Fabrizi…
Da tutto ciò deriva un rapsodico tentativo di fare una storia minore del cinema mondiale, composta non solo da figure relegate sullo sfondo, ma anche da un’enorme mole di informazioni di vario genere e titolo, minuscoli ingranaggi che hanno cambiato la storia (il pretore Giuliano Grizi, carneade che favorì la fine del monopolio Rai aprendo alle TV private), sempiterni casi di censura (i processi che subì Pasolini o quello intentato contro Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco, o ancora L’emigrante di Chaplin tagliato nientemeno che per mano di Oscar Luigi Scalfaro), notazioni illuminanti su come ignoriamo il nostro patrimonio cinematografico (si veda in tal senso il confronto tra il Filmhaus di Berlino e il Museo del Cinema di Torino: il primo un serio museo dedicato al cinema tedesco, il secondo costruito su un’enfasi barocca, un po’ museo delle cere un po’ luna-park), innovazioni tecnologiche dimenticate (il Circarama lanciato a Torino in occasione di Italia 1961), inquietanti coincidenze storiche (nello stesso giorno in cui la Germania invadeva la Polonia, alla Mostra di Venezia Abuna Messias vinceva la Coppa Mussolini) e pruriginose precisazioni (quale attrice comparve per prima a seno nudo nel cinema italiano).
Storia del cinema e storia del costume arrivano allora a confondersi, per un volume che vuole essere deliziosamente passatista e che si riverbera solo in parte nel presente. A leggere le pagine di Pellizzari infatti viene soprattutto la nostalgia per un pianeta che non c’è più, per un cinema che per l’appunto si ‘faceva’ costume e che era al centro del mondo dello spettacolo; un rimpianto diffuso verso vite avventurose e figure prometeiche. E tra queste ultime, non è un caso – anche per la competenza di Pellizzari, da sempre partecipe dei destini della critica cinematografica – che vengano rievocati molti suoi colleghi che non sono più tra noi: Lino Micciché, Ugo Casiraghi, Alberto Farassino, Umberto Barbaro, Fernaldo Di Giammatteo, Guido Aristarco, Pio Baldelli, ecc. Pellizzari parla di loro con affetto e partecipazione, ricordandoci come la categoria del critico rappresentasse un tempo una funzione precisa, poi sin troppo deprecata, vale a dire quella per lo più della critica militante. Che non significa essere stati necessariamente al servizio di un partito, come pure è accaduto in certi casi, quanto infondere un impegno morale al proprio mestiere, pensarsi come parte attiva di un universo rappresentativo strettamente connesso al dibattito pubblico. L’esatto contrario del monadismo contemporaneo.
Era meglio allora o forse è meglio oggi, non spetta a noi dirlo, soprattutto in questa sede. Quel che invece è interessante sottolineare è che Lorenzo Pellizzari è testimone sia del passato che del presente; per dirla in maniera esplicita l’autore ha vissuto sia l’augusta e illuminata epoca del cartaceo sia quella ben meno eroica e molto confusa del web (di cui noi stessi facciamo ovviamente parte). E, in maniera indiretta, quanto incredibilmente pervasiva, Il calendario del cinema vive proprio di questa contraddizione, ne è in qualche modo nutrito e insieme dissanguato. Mettere ad esempio citazioni e rimandi da Informazione e contro-informazione di Pio Baldelli insieme a estratti da Wikipedia, accenni a revisioni di film su Youtube e rimembranze di polverosi cineclub, non è solo e non tanto il segno di un’epoca post-moderna che azzera le distanze tra alto e basso, tra il ‘sacro’ e l’osceno, quanto è soprattutto rappresentazione della ‘lateralità’ del mestiere (?) del critico nel contemporaneo. Della sua apparente insignificanza in un mondo di codici, dati, materiali che non sono più governabili in un’unità organica, in un discorso unico, e che ci condannano alla frammentazione orizzontale del pensiero.
Leggendo e scorrendo le pagine di Il calendario del cinema allora non possiamo non pensare al profetico racconto di Borges, Funes, o della memoria, il cui protagonista era condannato a ricordare tutto quello che gli accadeva, e se doveva rievocare una sua qualsiasi giornata ci metteva un giorno intero. La mole di informazioni che ci mette a disposizione Pellizzari è infatti potenzialmente infinita, perché ad esempio potrebbe venir voglia di approfondire la cinematografia fantasma di Fidel Castro (che risulta essere apparso in tre film hollywoodiani degli anni Quaranta, Non sei mai stata così bella, Bellezze al bagno e Vacanze al Messico) o quella potenzialmente più carica di significato di Gianni Franciolini (Buongiorno, elefante!); ma si lascia perdere ben presto, finendo per essere sopraffatti dalle troppe sollecitazioni che ci arrivano. Questo stesso sapere enciclopedico sembra del resto essere oggi la vera condanna della critica, indirettamente rievocata dallo stesso Pellizzari nel momento in cui ci racconta della disfida a colpi di raccolte di recensioni che fecero per anni Giovanni Grazzini e Tullio Kezich, pubblicando in volume centinaia e centinaia di articoli scritti per i film in uscita, oscuri presagi di celeberrimi dizionari, quali il Morandini e il Mereghetti.
Il calendario del cinema è tangenziale rispetto a lavori siffatti, ma allo stesso tempo ha il vantaggio di proporre rispetto ad essi di più e di meno al lettore. Di più perché il suo contenuto è inclassificabile – un indice dei nomi o dei fatti, per quanto accennato, sarebbe impensabile -, di meno perché non tende all’interezza, non vuole essere completo e ‘definitivo’, obiettivo illusorio e fallace cui invece aspirano i suddetti dizionari.
Ecco che dunque Il calendario del cinema si pone come raccolta ‘impura’, disordinata, un po’ solipsista, facendoci temere che il futuro e il presente del critico non possa essere più la costruzione di un discorso, quanto il racconto di una ‘chicca’, l’andare a ripescare l’aneddoto bizzarro sconosciuto ai più, unico elemento che oggi forse può differenziarlo dal resto degli umani, così come Funes, che risultava un caso degno di nota per l’estensore del racconto borgesiano ma si mostrava privo della necessaria capacità di astrazione del pensiero.
E nell’attesa di trovare una soluzione al busillis, è doveroso chiudere con una delle tante chicche che ci regala Il calendario del cinema, nello specifico quella che Pellizzari va a ripescare da una vecchia intervista che Marcello Mastroianni aveva rilasciato per l’Europeo a Lietta Tornabuoni, a proposito della sua interpretazione ne Lo straniero di Visconti, una riflessione che sembra quasi voler annullare d’un sol colpo gran parte della storia eroica del nostro cinema: “E lei non pensa che Visconti abbia scelto me perché avevo qualcosa in comune con il personaggio? Mi creda, io non ho niente dell’attore. Né dell’attore colto, né dell’attore istrione, né del professionista, né del dilettante, né del genio, né del guitto. Io sono un perito edile: e quello dovevo fare, lì dovevo restare. In cantiere con i muratori. In un ambiente operaio, almeno, nessuno mi avrebbe chiesto di essere brillante, di essere aggiornato, di avere personalità. Sarei stato benissimo a costruire palazzine: un mattone sopra l’altro fa un muro, non si discute”.