Abuna Messias

Abuna Messias

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Si muove tra orientalismo e documentarismo, thriller geopolitico e western Abuna Messias di Goffredo Alessandrini, raro e importante esempio del cinema coloniale nostrano. Ai Mille Occhi 2015.

Vaccini e vangeli

Il frate cappuccino Guglielmo Massaia, insieme al fido Padre Leone, attraversa l’Etiopia arrecando la parola di Dio e i vaccini contro il vaiolo. [sinossi]

Poche righe sul manuale di Storia del Cinema. Non è concesso certo molto spazio nei libri di testo e nelle università (per non parlare delle Tv) al cinema coloniale italiano. A colmare la lacuna dello studente (e non solo) possono però concorrere rassegne e festival, come I Mille Occhi, evento triestino diretto da Sergio M. Germani, che nell’annata 2015 ha presentato, rigorosamente nel formato originale di appartenenza (ovvero il 35mm), alcuni interessanti esempi di cinema coloniale italiano: da Kif Tebbi di Mario Camerini (1928) a Okiba, non vendermi!, opera unica di Gianni Fontaine del 1955, fino al “famigerato”, ma per l’appunto poco visto, Abuna Messias di Goffredo Alessandrini (1939). Se nel film di Camerini troviamo un importante esempio della fascinazione del fascismo per la cultura islamica, Okiba, non vendermi! appartiene invece già a un cinema post-coloniale con esplicito obiettivo di catechesi, che incuriosisce oggi soprattutto per le affinità di trama con il film vincitore della SIC di quest’anno, Tanna. Per Abuna Messias, realizzato nel pieno del ventennio, il discorso è invece più complesso e stratificato, e non solo per via del periodo storico in cui si inscrive.
Innanzitutto vale la pena dissertare e magari dissentire sull’epiteto di “famigerato”, perché che Alessandrini abbia fatto, insieme a colleghi come Camerini, Augusto Genina e Carmine Gallone, pellicole sostenute e premiate dal regime fascista (Abuna Messias vinse la Coppa Mussolini al VII Festival di Venezia) è cosa indubbia, ma se queste abbiano un loro intrinseco valore e sappiano parlare anche al nostro presente è tutt’altro discorso.

Protagonista di Abuna Messias è Guglielmo Massaia (Camillo Pilotto), un frate cappuccino intento ad esplorare il territorio etiope per portarvi la parola di Dio e i vaccini contro il vaiolo. Noto presso la popolazione locale come Abuna Messias, il frate è però osteggiato dal patriarca copto Abuna Atanasio (Mario Ferrari) che vuole scongiurare la diffusione del cattolicesimo così come l’ascesa al trono di Menelik (Enrico Glori), grande amico di Massaia. Per conservare dunque lo status quo, Atanasio fa pressioni sull’imperatore di Etiopia Johannes (Ippolito Silvestri), affinchè questi cacci lo straniero e argini l’ascesa al potere di Menelik. Nel frattempo, la principessa Além (Berché Zaitù Taclè), figlia del capo-clan dei Galla, chiede a Massaia di intercedere per lei, favorendo il suo matrimonio con Menelik. Mentre le opposte alleanze si rafforzano nelle stanze del potere, l’esplosione di un conflitto armato sembra sempre più inevitabile.

Per un regime che vedeva nella “cinematografia l’arma più forte” gli investimenti sulla settima arte e i suoi prodotti erano coerentemente ingenti e Abuna Messias ne è di certo un lampante esempio, ma la magniloquenza e la retorica non sono, a dispetto del committente statale, le sue precipue caratteristiche. Abile metteur en scène di sequenze di massa così come di intrighi di palazzo, Alessandrini costruisce il suo affresco con cura certosina e uno spiccato gusto per lo spettacolo, ma il suo stile non è propriamente roboante, il modello preso ad esempio pare piuttosto la schiettezza del western fordiano, mescolata a un’attitudine documentaristica che a tratti, specie nelle sequenze in interni, approccia un elegante, seppur sobrio, orientalismo pittorico.
La propaganda c’è, e utilizza un grimaldello assai interessante, ovvero la religione (o, meglio, l’evangelizzazione), facendo del suo protagonista, armato di croce e utilissime conoscenze di medicina, un benevolo apripista per la colonizzazione d’Etiopia di là a venire.
Colpiscono in Abuna Messias, se paragonate al cinema italiano odierno, non solo le capacità produttive e il relativo sguardo verso nobili modelli statunitensi, quanto certe raffinatezze della sceneggiatura, firmata tra gli altri da Vittorio Cottafavi. Lo script incastra infatti sapientemente sequenze di intrighi di palazzo degne di un thriller geopolitico (non ci sfugge niente delle dinamiche di potere in corso all’epoca in Etiopia) ad aperture sul paesaggio vasto e desertico dell’Africa orientale, dove si respira un certo spirito di esotica, eppur pragmatica avventura.

Non mancano poi vere e proprie raffinatezze di scrittura, come quando all’inizio del film, Massaia libera uno schiavo comprandolo con una medaglietta d’oro che arreca l’effige di Cavour, e proprio questo oggetto prezioso consente poi al “nemico” di scoprire la presenza del religioso in terra etiope, e di dare il via ad una vera e propria caccia all’uomo.
Notevole è anche la caratterizzazione dei personaggi, per cui, accanto ad un Massaia (incarnato da Camillo Pilotto) a suo agio sia come uomo spirituale che come politico, troviamo che la sua nemesi, è trattata con pari dignità: l’Abuna Atanasio interpretato da Mario Ferrari è di fatto un personaggio a tutto tondo, che mai si appiattisce sugli stereotipi del “villain”. Lo stesso discorso vale per Menelik o per Johannes, mentre si segnala un inedito personaggio femminile, quello della principessa Além che, incarnata da un’interprete realmente etiope Berché Zaitù Taclè, risulta ben poco interessata a quelle questioni sentimentali ai tempi attributi principali dei ruoli femminili e molto più propensa a tramare per consentire alla propria etnia l’ascesa al trono (si vedano i suoi piani per convolare a nozze con Menelik). Naturalmente, come era frequente allora (e lo sarà ancora a lungo), la maggior parte dei personaggi principali di origine africana sono, ad eccezione della principessa, incarnati da attori italiani, mentre indigene sono senza dubbio le migliaia di comparse nelle scene di massa, così come quello schiavo liberato da Massaia che, destinato alla fine del film a raccogliere il suo testimone, possiede tutte le caratteristiche del “buon selvaggio” tipico di certo paternalismo coloniale e non solo. Al pari dello schiavo, appare strumentale e un po’ lasciato da parte il personaggio di Padre Leone, prima fido accompagnatore di Massaia quasi fosse una sorta di scudiero in stile Sancho Panza, poi accantonato, fino alla fugace e per lui letale apparizione finale.

Importante esempio di cinema coloniale in grado di amalgamare propaganda e intrattenimento, facendo un utilizzo maturo e spavaldo delle dinamiche di genere (thriller politico, western, film di guerra) Abuna Messias è dunque una pellicola che, mettendo da parte la complessa questione della rimozione storica di un passato di nazionale vergognoso, da un punto di vista cinematografico è tutta da riscoprire.

Info
Il sito del festival I Mille Occhi.
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