I ragazzi di Feng Kuei

I ragazzi di Feng Kuei

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Presentato al Cinema Ritrovato nel restauro della Cinematek belga, I ragazzi di Feng Kuei è il primo film autoriale di Hou Hsiao-hsien. Rivisto alla luce di tutta la sua filmografia a venire, appare come un manifesto programmatico dell’estetica e della poetica del grande regista taiwanese.

Goodbye Rocco e i suoi fratelli

Quattro ragazzi trascorrono le loro giornate annoiati e senza scopi nel loro villaggio. Dopo l’ennesimo scontro con la banda rivale, tre di loro si trasferiscono a Gaoxiang, dove affrontano la dura realtà della grande città. [sinossi]

Rivedere I ragazzi di Feng Kuei nel recente restauro in 4K della Cinematek di Bruxelles, fatto con la consulenza dello stesso Hou Hsiao-hsien e presentato al Cinema Ritrovato 2016, è come vedere un altro film, rispetto alle copie sporche in dvd, per non dire dei vecchi vcd su cui molti di noi hanno scoperto questo film insieme a tanti titoli orientali. Soprattutto una copia così pulita permette di cogliere tutta una serie di dettagli, come vedremo, che altrimenti non venivano percepiti.
Si tratta del quarto titolo nella filmografia del grande regista taiwanese, ma il suo primo vero film a giudizio di molti, considerando che i primi tre erano dei musicarelli di tendenza costruiti attorno alla popstar Kenny Bee. Alla luce della filmografia di Hou Hsiao-hsien fino a oggi, possiamo riconoscere in I ragazzi di Feng Kuei, presentato al Cinema Ritrovato, quelle che saranno le linee programmatiche del suo cinema.

Vale la pena intanto focalizzarsi sulle tre proiezioni interne al film, sui tre momenti di cinema nel cinema, considerando anche la seconda pur solo virtuale, i tre schermi che appaiono in I ragazzi di Feng Kuei. In un primo momento vediamo i ragazzi protagonisti entrare di straforo in una sala cinematografica, dove si proietta Rocco e i suoi fratelli. Per un film di impianto autobiografico come è I ragazzi di Feng Kuei, sembra di vedere in questo anche un richiamo al cinema di Truffaut, un manifesto all’autobiografia come progetto estetico. Tuttavia, a differenza di Antoine Doinel che marinava la scuola per andare al cinema con passione, i quattro ragazzi di Kuei sembrano delusi da quella visione. Delusi dal bianco e nero, delusi per l’assenza, nonostante la sensualissima scena con Annie Girardot, dalla mancanza di scene pornografiche.
La poetica e l’estetica di Hou Hsiao-hsien si sono sempre fondati, finanche nei primi tre musicarelli, sullo sguardo d’insieme, sull’impiego del teleobiettivo abbinato al formato anamorfico. Una visione totale del mondo e della vita, dove predominano long take di grande respiro, che contemplano il pieno ma anche il vuoto, evitando il più possibile i primi piani, i dettagli, i close-up; che comprende tanti elementi che un regista canonico considererebbe superflui, come i bambini che giocano o le nuvole.
Nella seconda scena cinematografica, i ragazzi – rimasti in tre – quando approdano nella grande città di Gaoxiang vengono convinti da un imbonitore a prendere i biglietti per una proiezione clandestina in un palazzone in via di costruzione (stavolta quindi pagando). Ed è intuitivo, vista la precedente scena, che si aspettino qualcosa di forte, di proibito. Si tratterà invece di un imbroglio e i tre si troveranno in un piano dell’edificio ancora in costruzione, con un grande squarcio aperto sulla città, di forma rettangolare proprio come uno schermo anamorfico, e si fermeranno a contemplare questa visione dall’alto.

Siamo in un film dove, nella costruzione dell’immagine – fatta come si diceva di frequenti totali -, il regista delimita e focalizza spesso dei riquadri interni incorniciandoli con porte, finestre, specchi, staccionate, siepi, ballatoi. In quest’ottica la parete mancante del palazzo si configura come uno schermo panoramico, uno sguardo sul mondo come quello di un teatro, un palcoscenico della vita. Il caos della città che il regista fotografa più volte nel traffico di automobili, pullman e motocicli, nei passaggi a livello o nei mercati affollati all’aperto. Un cinema che rifiuta quindi la pornografia intesa come cinema fatto al contrario di dettagli, di pezzi di carne.
Hou Hsiao-hsien porterà avanti questa sua concezione finanche in un altro genere cinematografico che si fonda sui particolari, vale a dire il wuxia. Il linguaggio tipico di questo genere, consolidato dai registi classici Chang Cheh e King Hu, ed ereditato anche da tanti contemporanei, si fonda sul constructive editing, che funziona con la decostruzione dell’azione in diversi dettagli, un piede che salta, una parte del corpo nell’aria, che il pubblico deve assemblare mentalmente per ricostruire ardite piroette in assenza di gravità. Invece con il suo wuxia, The Assassin, il regista taiwanese (come ci aveva spiegato nell’intervista che ci ha rilasciato a Venezia 2015) evita ancora una volta questo tipo di linguaggio, privilegiando nei combattimenti i totali di attori che eseguono davvero azioni atletiche. E il wuxia torna anche in I ragazzi di Feng Kuei, un anticipo del film che Hou Hsiao-hsien realizzerà trent’anni dopo, nella terza proiezione, nel terzo schermo interno, che riguarda il film Il serpente all’ombra dell’aquila di Yuen Wo Ping con Jackie Chan, attore funambolo che ha sempre voluto realizzare dal vero anche le scene impossibili.

Un film in bianco e nero, Rocco e i suoi fratelli, come osservano con disgusto i ragazzi di Feng Kuei. E l’uso espressivo del bianco e nero tornerà spesso nella filmografia del regista taiwanese. A partire già da questo film e dalla sequenza del ricordo dell’uccisione della biscia da parte del padre del protagonista, in uno dei flashback tutti demarcati – come si può ora apprezzare grazie al restauro – da un effetto flou e da una fotografia diversa, con i colori molto più chiari rispetto a quel che si vede in altri momenti del film. E il bianco e nero tornerà poi in Good Men, Good Women e nello stesso The Assassin.
I ragazzi di Feng Kuei comincia con la scena di un biliardo e il gioco si configura come l’ulteriore nervatura del film e del cinema del regista. Si succederanno scene di mahjong, di baseball. Il gioco è una chiara metafora della vita, con la sua posta in gioco rappresentata, nell’ultima scena del biliardo, dalle monete sulle palle da biliardo messe in premio. Un gioco crudele governa le nostre vite e lo sport può anche condurre alla morte, come per il padre del protagonista, che si scopre dovere la sua infermità all’essere stato colpito da una palla da baseball. Come i due fidanzati del primo segmento di Three Times, che vivono la storia di separazione e riunificazione al ritmo del biliardo. Il gioco della vita e il teatro del mondo: sono le coordinate programmatiche sulle quali si svilupperà tutto il cinema del regista.

Info
La pagina dedicata a I ragazzi di Feng Kuei sul sito de Il Cinema Ritrovato.
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