Avere vent’anni

Avere vent’anni

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Opera autenticamente personale, Avere vent’anni è anche un film ibrido, incompiuto, per non dire incompleto. Forse l’operazione più ambiziosa per il suo autore, che vi inserisce temi scottanti come la sessualità femminile, la droga, la vita delle comuni, il maschilismo reazionario, finendo col perdere inevitabilmente qualcosa per strada.

What Girls Want

Sull’onda tardiva degli anni della contestazione e dell’emancipazione degli anni ’70, Lia e Tina sono due belle giovani, libere ed emancipate, che s’incontrano su una spiaggia. Decidono di viaggiare in autostop fino a Roma, alla “comune” hippy gestita da un uomo detto il Nazariota e abitata da curiosi personaggi. Le ragazze decidono di trattenersi là e, per mantenersi, vendono enciclopedie porta a porta… [sinossi]

Che in una produzione italiana del 1978 si chiamino Gloria Guida e Lilli Carati come interpreti principali e le si faccia agire per quattro quinti del film sulla scia dello slogan “giovani, belle e preferibilmente nude”, è pratica fondante e necessitante di qualsiasi commedia sexy dell’epoca (genere che in quegli anni viveva la sua stagione aurea). Ma affidate il tutto alle mani poco accondiscendenti di Di Leo e i corpi delle due attrici, da puro oggetto del desiderio maschile, assurgeranno immediatamente a “soggetto” pensante, per incarnare (ma siamo sicuri, in modo puramente inconsapevole?) gli umori rivendicazionisti del dilagante femminismo, trasformando lo slogan di cui sopra nella più perentoria e intransigente delle affermazioni d’identità femminea: “Noi siamo giovani, belle e incazzate” griderà a gran voce Lilli Carati, a più riprese, nel corso di Avere vent’anni.
Ma si era pur sempre nel 1978, e quando lo spettatore a cui un prodotto simile ambiva destinarsi si trovò di fronte a un film dove i propri pruriti voyeuristici venivano continuamente frustrati e messi alla prova dalla sproporzionante presa di posizione dei ruoli femminili, dalla loro irriverente libertà sessuale che dichiaratamente vilipendiava l’egoismo maschile rovesciandone le dinamiche di seduzione (gli uomini, oggetti passivi, preda delle donne, sessualmente attive, disinibite, e per questo libere al punto di essere oscene), l’impulso irrefrenabile fu quello di abbandonare le sale, destinando il film a un pauroso insuccesso commerciale.

Opera autenticamente personale, Avere vent’anni è anche un film ibrido, incompiuto, per non dire incompleto. Forse l’operazione più ambiziosa per il suo autore, che vi inserisce temi scottanti come la sessualità femminile, la droga, la vita delle comuni, il maschilismo reazionario, finendo col perdere inevitabilmente qualcosa per strada (e il film è anche la documentazione di questa “strada”, del percorso creativo, produttivo, di Di Leo, immancabilmente inconcluso), ma riuscendo comunque a offrire un ritratto lacerante e spietato dei miti della cultura alternativa dei ’70, quasi un road-movie (più in senso sociologico che geografico) al femminile, un percorso in itinere destinato a risolversi in drammatico epilogo (che sia questa la radice ctonia di prodotti come Thelma & Louise…?).
La descrizione della comune gestita dal Nazariota (uno straordinario Vittorio Caprioli) è intessuta di dettagli sulla fatuità della cultura hippy anni ’70, un microcosmo di giovani perditempo, disoccupati, che dormono o si drogano, sessualmente inattivi, lontani dall’energia propulsiva e arrabbiata delle due giovani protagoniste; ma tale habitat è comunque frequentato da una fauna di personaggi che i nostri migliori caratteristi si divertono un mondo a incarnare: si va da Vincenzo Crocitti, vagabondo doppiato in romanesco da Ferruccio Amendola (che provandoci con la Carati le grida: “Ma te l’hai letta La rivoluzione sessuale?” “Io l’ho fatta!”, le risponde la ragazza) a Leopoldo Mastelloni, santone in meditazione che non si scompone di fronte alle gesta erotiche delle sue compagne di stanza (commovente quando viene messo sotto torchio da un urlante Bracardi commissario di polizia). Non male neanche il personaggio serioso di Lovelock, giovane professore scappato dalla vita borghese per rifugiarsi nei paradisi artificiali della droga, che riscopre per un momento l’amore grazie all’intraprendenza di Lilli Carati. Nel mezzo, c’è tempo anche per confessioni da cinema verité, con un cinematografaro impegnato che viene in comune per girare un documentario sui suoi inquilini, momento in cui la Carati e la Guida si raccontano a viso aperto davanti alle cineprese della troupe (ottimo anche nella sua resa stilistica, con macchine a mano intrecciate a seguire le due).

A parte il granitico, faunesco blocco centrale nella comune – con tutte le divagazioni psuedocommediche del caso –, Di Leo mostra a forti tinte l’illusoria possibilità di una vera libertà per le sue eroine anticonformiste, destinate al sacrificio finale, votate immancabilmente allo scacco in un mondo pur sempre dominato dalla violenza maschilista reazionaria; gli ultimi dieci minuti finali (dove tutto questo definitivamente accade) sono esemplari nel suturare perfettamente le aporie e i buchi di sceneggiatura di cui pure il film mantiene vitalisticamente le tracce (dei vuoti che palesano incessantemente la condizione di pratica non chiusa, personale, ambigua, a tratti quasi astratta, del film di Di Leo), sigillando con la freddezza di un teorema il senso spietato di tutto il film, quello stesso senso che nei primi quattro rulli ci era parsa disinibita e selvaggia, quando non ingenua e un po’ stupidotta, ansia di libertà, desiderio di vita, d’affermazione della propria identità in un mondo borghese e benpensante che rifiuta e nega cautelativamente ogni verità.
La stoccata finale di Avere vent’anni è un colpo durissimo inflitto alla coscienza dello spettatore, che ne trasforma retroattivamente la fruizione in una riflessione amarissima sulla cultura alternativa degli anni ’70, e fa sì che il film s’imponga al contempo come lapidaria disintegrazione del genere sexy allora in voga.

Caso strano, l’epifania affidata all’ultimo dei cinque rulli, che dà al film la sua misura più pregnante e necessitante, scompare del tutto dalle copie circolanti nel mercato vhs italiano, dove sia la Cinehollywood che la Kineo epurano l’aggressione finale alle due protagoniste sostituendola con un epilogo di molto edulcorato dove ricompare il personaggio di Caprioli a cui viene affidato un monologo di chiusura, ripescato certamente da qualche scena precedentemente scartata al montaggio.
Si tratta in realtà della stessa versione che circolò a suo tempo anche nelle sale, quando il film col suo cut integrale – col finale originario – fu subito ritirato dagli esercenti visto l’insuccesso di pubblico, per essere rimontato e ridistribuito in questa versione apocrifa e snaturata, non senza andare incontro a un analogo disastroso esito economico, visto che ormai, mediaticamente, il film era già “bruciato”.
A rigor di filologia, l’unica versione integrale dell’opera è la vhs New Pentax americana (con audio in italiano), che mantiene appunto il montaggio della primissima uscita nelle sale; un’edizione che definire rara è gentile eufemismo, divenuta da anni preziosissima merce di scambio nel mercato collezionistico. Per fortuna, per il prossimo autunno, la Rarovideo ha annunciato l’uscita di un cofanetto dvd dedicato all’opera Fernando Di Leo, contenente proprio la versione integrale di Avere vent’anni, la stessa che qualche giorno fa la Sala Trevi ha mostrato al pubblico romano facendo registrare casi unici di pienoni in entrambe le sue programmazioni. Evento più unico che raro, visto che fino a un anno fa si dubitava seriamente dell’esistenza di una copia in pellicola di questo film. Alla proiezione serale c’era persino Marco Müller, neodirettore del Festival di Venezia, che, trascinato all’appuntamento dall’indomito Marco Giusti, pare abbia così commentato la pellicola: “Film molto interessante”.

Info
Avere vent’anni, i titoli di testa.
Il dvd della RaroVideo di Avere vent’anni.
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