Severance – Tagli al personale

Severance – Tagli al personale

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Severance – Tagli al personale non si vergogna di mettere nel campo di battaglia tutto il “basso” cinematografico possibile e immaginabile, spingendo sul pedale del comico, del surreale, del paradossale per raccontare – almeno in parte – la follia barbarica del Capitalismo. Fuori Concorso al Festival di Locarno 2006.

We’ll Meet Again Some Sunny Day

Sei dipendenti di una multinazionale di armi, la Palisade Defense, si ritrovano sulle montagne della Transilvania per passare un weekend giocando a paintball, grazie al quale rinsaldare lo spirito di gruppo. Impossibilitati a raggiungere l’albergo prenotato dal loro capo, si ritrovano a passare la notte in una baita nel bel mezzo di un bosco. Diventeranno preda di una banda di fanatici della guerra, venendo trascinati in un combattimento all’ultimo sangue. [sinossi]

C’è una sana ventata dal retrogusto cinico che sta sferzando il cinema dell’Europa del nord negli ultimi anni. Se già ci si era abituati a ricevere sonori e dolorosi pugni nello stomaco a Copenhagen e dintorni, c’è da dire che non era possibile aspettarsi di arrivare a rimarcare il compito dinamitardo svolto all’interno della cinematografia continentale dalle produzioni anglosassoni.
Certo, ci sono sempre in ballo i nomi di contestatori a oltranza quali Ken Loach (dietro la cui tenacia militante qualche povero sprovveduto ha voluto intravedere i riflessi di un’apologia del terrorismo; viviamo tempi vemente cupi) o, seppur in modo sensibilmente diverso, Mike Leigh; per non parlare di quella schiera di giovani sezionatori dei vizi e delle virtù della società inglese che ha trovato nei film di Shane Meadows gran parte delle risposte ai quesiti che aveva lanciato. Ma la materia del contendere in questa occasione trascina ben lontani da ipotesi di analisi storica o sociale, per quanto ci si ritrovi immersi fin dall’incipit in un calderone dove vengono rimescolati quasi venti anni di politica internazionale.

Chiunque, dopo seppur brevi cenni sinottici (come quelli che si trovano in apertura di recensione), avesse l’ardire di lanciarsi in un’accorata requisitoria sulle derive del cinema civile contemporaneo, inquadrando Severance nell’ottica di una metafora della società capitalistica attuale, dove l’homo homini lupus di plautina memoria si erge a slogan supremo e incorruttibile, sfiorerebbe solamente il centro del discorso. Se è indubbio che l’ora e mezza orchestrata da Christopher Smith rappresenti un lancio senza paracadute in un mondo folle, barbarico, dove l’economia e il profitto svolgono il ruolo del belletto su un volto in putrefazione, sembra a dir poco limitante catalogare Severance come sguardo grottesco sull’umanità dei nostri giorni. Innanzitutto l’homo homini lupus cui si faceva riferimento poco sopra non è l’arma con la quale scoperchiare le ipocrisie e le falsità del mondo delle Corporation; semmai è, al contrario, una vera e propria appropriazione dello stato di natura enunciato da Thomas Hobbes. Un concetto dunque ben più universale del semplice contesto contemporaneo: ed è proprio su questo aspetto che si deve far leva per comprendere la difformità del film di Smith nei confronti di buona parte del cinema europeo – e non solo.

La Storia viene sfruttata a uso e consumo di una macchina/cinema ludicamente fagocitatrice, e si ritrova ben presto a fungere da semplice escamotage narrativo, McGuffin della migliore fattura. Quello che interessa a Smith, e che preme rimarcare in questa sede, è la messa in mostra di un mondo infernale, caotico, esagitato, strabordante. Una sorta di brodo primordiale dal quale far affiorare tanto l’orrore – ce n’è eccome di carne al fuoco per gli amanti dello splatter e del gore, e la materia è trattata con un’arguzia sconosciuta ai vari Saw e Hostel – quanto, soprattutto, l’ironia dissacrante. Eccolo il sano cinismo al quale si faceva riferimento in apertura della recensione: al contrario della maggior parte del cinema al quale può essere apparentato (i film di Eli Roth e James Wan, ma anche – per rimanere in territorio britannico – il bello e sottostimato The Descent di Neil Marshall), Severance non gioca con i suoi personaggi, ma insieme a loro. Prendendo a grandi mani dal comico, dal surreale e spingendo volentieri sul pedale del paradossale, Smith raggiunge delle vette che sfiorano in più occasioni il sublime: senza vergognarsi di mettere sul campo di battaglia (è proprio il caso di dirlo) tutto il “basso” cinematografico possibile, dal male assoluto fino ad arrivare a due bellocce post-meyerane che, inguainate in uno striminzito vestito militare sparano all’impazzata con i loro mitra. Ed è in questo che, probabilmente, è possibile seriamente rintracciare il percorso di un cinema politico, nel senso più ampliato e letterale del termine, se si riesce a comprenderne il paradosso.

L’incontro con Severance è a suo modo qualcosa di sorprendente, soprattutto per chi ha ancora nella mente il confusionario incedere del suo esordio Creep, nel quale Franka Potente cercava di districarsi nell’inferno di una metropolitana. È interessante notare come Smith rifletta anche in questo caso sulla natura dell’uomo in gabbia, chiuso in un luogo circoscritto e costretto a subire gli attacchi esterni di qualcuno che vuole ucciderlo: se questa fosse una metafora della realtà contemporanea la si troverebbe perfino banale, se non già vista e metabolizzata.
Ma è cinema, a uno stato così puro e privo di mediazioni che non può non conquistare. E se ancora non credete a ciò, aspettate di scoprire qual è la nuova arma in produzione alla Palisade Defense, e poi se ne riparla…

Info
Severance – Tagli al personale, trailer.

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