Borat – Studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan

Borat – Studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan

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Oggetto a suo modo quasi inclassificabile, Borat è la testimonianza del genio creativo di Sacha Baron Cohen, che attraverso un simil-road movie in giro per gli Stati Uniti ragiona sulla rappresentazione del “vero” e del “falso”, scoprendo nell’uno i germi dell’altro, e viceversa. A dirigere Larry Charles, già autore del dylaniano Masked and Anonymous.

Il giornalista kazako Borat Sagdiyev viene incaricato dal Ministero dell’Informazione del Kazakistan di recarsi negli Stati Uniti d’America per girare un reportage che sveli i segreti del successo della nazione a stelle e strisce. Borat inizia un viaggio attraverso gli USA in compagnia del suo produttore Azamat Bagatov. [sinossi]

Andarsi a spulciare la mastodontica mole di materiale scritto in giro per il mondo nei riguardi di Borat – il cui sottotitolo Studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan delinea con estrema precisione la genialità del contesto – prima ancora di averlo visto equivale a gettarsi senza salvagente in balia delle rapide nei pressi di una cascata. Si verrà sballottolati a destra e a sinistra senza alcuna possibilità di uscire indenni dall’acqua.
Nel corso dei mesi passati dall’anteprima alla Prima Edizione Festa Internazionale del Cinema di Roma fino all’uscita nelle sale del nostro paese, Borat ha fatto parlare di sé per motivi che, spesso e volentieri, esulavano dal recinto cinematografico strettamente inteso; in pratica la quasi totalità del giornalismo mondiale aveva la sua opinione da dire sul film in questione ben prima che lo stesso potesse difendersi con le armi a propria disposizione. Tra accuse di razzismo e peana lanciati verso la libertà artistica a trecentosessanta gradi, si è seriamente corso il rischio di lasciarsi prendere dalla foga retorica smarrendo di vista il nucleo della disamina. Chiariamo da subito dunque il primo punto che ci preme rimarcare: Borat è una commedia esilarante, e si pone tra i migliori esempi di comicità corrosiva degli ultimi anni.

Sarebbe a dir poco ingiusto non ascrivere al nome di Sacha Baron Cohen il merito del successo della pellicola: il trentacinquenne attore inglese, noto al pubblico televisivo per il Da Ali G Show, mette in scena il sedicente giornalista kazako Borat sfruttando al meglio le potenzialità verbali e fisiche del personaggio. Ciò che ne esce è un goffo e cinico concentrato di sconcezze, un corpo tumorale teso a minare dall’interno non solo le certezze nelle quali si coccola la nazione più potente del globo, ma anche e soprattutto la stessa funzione drammaturgica della commedia. In effetti Borat è, a suo modo, uno dei più lucidi e destabilizzanti documentari sulla società occidentale e le sue complesse sfaccettature ai quali ci è dato di assistere: proprio attraverso la lente deformante e deformata del comico – tra l’altro a uno stadio spesso volutamente gretto, materiale, becero e basico – Sacha Baron Cohen, anche sceneggiatore insieme a Anthony Hines, Peter Baynham e Dan Mazer, riesce a incunearsi nelle maglie più strette degli USA e a ribaltarne i valori, in un gioco al massacro portato alle estreme conseguenze. Borat vive in scena su due piani completamente distinti: da un lato c’è la finzione, rappresentata dal (terzo) mondo dal quale proviene il protagonista, dall’altro la realtà identificabile nel simil-road movie statunitense.

Gli USA e il Kazakistan, il vero e il falso, dunque, legati in maniera indissolubile esclusivamente dal corpo in scena di Cohen, dalla sua voce, dalla sua esperienza. Cinema che sfiora in continuazione l’empirico fino a condurlo verso il sublime, Borat dimostra la sua importanza proprio in questa peculiarità, nel suo stare nel mezzo del sistema cinematografico, muovendosi in estrema libertà dal comico al documentario, esponendo di fatto il mockumentary alla base del progetto a un commistione a tratti quasi crudele con il mondo reale. Si è di fronte a un imbastardimento delle strutture narrative, portato avanti con una consapevolezza che non si dimentica mai della levità; è così che – i puristi della settima arte si tappino pure le orecchie – in più punti sembra di assistere a un amplesso selvaggio e caustico tra John Waters e Frederick Wiseman.
Si ride, anche in maniera piuttosto grossolana in alcuni punti (si prenda la sequenza che vede i due kazaki ospiti di un bed & breakfast gestito da una coppia di ebrei), ma gli squarci aperti sul fianco dell’America “bene” diventano immediatamente vere e proprie finestre su un mondo che, forse, non è mai apparso così falso e profondamente barbaro. Senza forzare con esercizi retorici la struttura della propria drammaturgia, Sacha Baron Cohen e Larry Charles (il regista assoldato per la bisogna, all’epoca aveva sulle sue spalle solo il non certo esaltante manifesto dylaniato Masked & Anonymous) propongono una serie di fermi immagine sull’America dei nostri giorni, soppesandone senza pregiudizi virtù, distoníe e colpe. In un certo senso la stessa operazione che cercava di portare avanti Michko Netchak in American Vertigo; solo che lì si sentiva forte il bisogno da parte dell’autore di una funzione moralizzatrice della Settima Arte. Qui, al contrario, si avverte l’urgenza di una messa in scena che deturpi, con la sua sola presenza, il mondo – vero o finto che sia – che lo circonda.

Borat è un corpo estraneo, anarchico per indole, ed è nel contrasto con il panorama nel quale si muove e opera che risiede la forza della pellicola: l’inno nazionale storpiato, il dialogo con un texano sull’omosessualità, la cena di gala alla quale è invitato, sono paradigmi ben più che funzionali al discorso che stiamo intraprendendo. Il ciclone-Borat devasta tutti i luoghi nei quali si trova – in questo l’apice è toccato proprio nella succitata cena – ma così facendo ne mostra, in filigrana, la reale essenza.
Noi ridiamo, come è giusto che sia, ma guardandoci allo specchio rischiamo di scoprire di appartenere, seppur in minima parte, alla stessa cultura. Ed ecco che il sorriso di questo giornalista baffuto dall’inglese incomprensibile si trasforma, di colpo, in ghigno.

Info
Borat, il trailer.

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