Venezia 2008 – Bilancio: Hangover
Smaltite le nebbie e le rabbie, compiuti due giri completi di lavatrice e riassestato un attimo i pensieri, insomma l’hangover è arrivato e Venezia 2008 se ne va in soffitta con le prevedibili polemiche e dietrologie, tra peana, mea culpa e chihuahua incazzati e sfigurati dalla rabbia per un premio che non è arrivato.
La Mostra del Cinema di Venezia 2008 smobilitata, vilipesa e un po’ depressa di quest’anno lascia spazio a un nuovo splendente Festival – non più festa, ma festival: come a dire, baby, quando il gioco si fa duro… – tutto romano, pimpante e in salute, mai come quest’anno così dannatamente giovane e soprattutto così lucido nello sviscerare le disfunzioni, le patologie se non in qualche caso anche i cancri di una Venezia morente. La Roma del cinema ha stravinto, ha schiacciato la sua rivale e la profezia del Celestino del Pd si è realizzata: Roma è tornata capitale del cinema.
Quasi del tutto privata di lustrini champagne e bon bon, Venezia 2008 pareva voler morire in silenzio come la sua laguna, con un programma che Marco Müller ha messo su in poco tempo (con la riconferma infatti che è arrivata piuttosto tardi), con la consueta assenza & carenza di strutture, sostegni, appoggi e pezze da piedi – il nuovo Palazzo del Cinema ha iniziato a produrre calcinacci mentre i politici litigano sui finanziamenti da erogare – e, non in ultimo, con l’obbligo di fare i conti con la crisi socio-culturale-economica di un paese che ristagna oltre ogni immaginazione. Malgrado ciò, questo programma messo in piedi così alla bell’è meglio, pieno di buchi e di crepe, di forzature e di scelte più figlie dell’emergenza che di una vera e propria linea festivaliera, si è rivelato in fondo l’ennesimo colpo da maestro di Müller.
Venezia 2008, allora, è viva più che mai e come Diogene cerca il cinema con la sua lanterna. Lo ha cercato negli ambiti più disparati e diversi, valicando confini geografici e steccati di genere, proponendo percorsi e sentieri inesplorati. Del Concorso Ufficiale rimangono almeno otto/nove grandi film, divisi tra cinema d’impegno e classico, animazione e indipendenza, sguardi autoriali e confidenze intime. E altri ne incontri nelle altre sezioni.
Ma la Venezia targata 65 non è uno specchio dove riflettere lo stato dell’immagine cinematografica quanto piuttosto un disordinato caos primigenio, dove istanze diverse convergono in un qualcosa di sfuggente ma infinitamente superiore.
È forma nuova, insomma, e forse sarà anche nuova carne.