Lasciami entrare

Lasciami entrare

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In un anno di grazia per il cinema europeo dedicato all’adolescenza (Stella, Lol), Lasciami entrare prende un archetipo narrativo e lo riplasma, senza mai snaturarlo, svilirlo o deriderlo. Minuto dopo minuto, il film di Alfredson diventa un piccolo saggio sul romanzo di formazione, lacerato all’interno da una saettante parabola orrorifica che ne condensa il significato, metaforizzandolo.

Sangue del mio sangue

Oskar, un dodicenne fragile e ansioso, è regolarmente angariato dai compagni di classe senza che mai si ribelli al loro bullismo. Il desiderio del ragazzo solitario di avere un amico pare avverarsi quando incontra Eli, anche lei dodicenne, trasferitasi insieme al padre nella casa accanto. È una ragazza pallida e seria che esce solo di sera e non sembra toccata dalla gelida temperatura esterna… [sinossi]

Gli appassionati di storie di vampiri sono avvisati: il 2008 non deve essere ricordato, come gran parte dei media hanno cercato di propagandare, come l’anno di Twilight. Non ce ne vogliano i cultori della saga creata da Stephenie Meyer, la cui riduzione per il grande schermo sta sbancando i botteghini di mezzo mondo, ma a nostro modesto avviso l’unico film – tra quelli attualmente in circolazione – realmente in grado di dire qualcosa di originale e di interessante sul mito del vampiro, non viene dalla dorata produzione hollywoodiana, ma dalla Svezia.
Dopotutto Lasciami entrare (traduzione letterale dell’originale Låt Den Rätte Komma In), ha ben più di un punto in comune con Twilight: in entrambi i casi abbiamo a che fare con dei vampiri adolescenti – anche se nel film di Tomas Alfredson parliamo di una ragazzina dodicenne – che, invaghitisi di coetanei umani, finiranno per dare vita a una storia d’amore “interrazziale”. Ma, ovviamente, tutto sta nel modo in cui si affronta la questione. Ultimamente i paesi nordici vengono  tirati in ballo di sovente quando si decide di affrontare una storia con protagonisti i mortali succhiasangue: era successo anche nello stanco 30 giorni di buio, nel quale i vampiri approdavano nella gelida Alaska provenienti dalle non certo più miti isole Svalbard. Eppure, paradossalmente, non è certo nella penisola scandinava o a ridosso del circolo polare artico che il mito dei vampiri si è diffuso in maniera capillare; se proprio dobbiamo trovare una patria a questa figura demoniaca ancestrale, probabilmente ci rifaremmo all’etimmé babilonese, o al rakshasa indiano. Da loro parte un lungo e intricato percorso antropologico, che attraversa l’intera storia dell’umanità senza distinzione di area geografica: dal pontianak al mrart, passando per vrykolaka, liderk nadaly, vurdalak, upyr, nosferat, wieszcz e via discorrendo, approdiamo finalmente ai vampir, e in seguito ai revenants di cui si occupò Augustin Calmet nei suoi studi, alla base di gran parte della letteratura vampiresca occidentale – che ha il suo zenit nel Dracula di Bram Stoker.

Se la digressione che ci siamo permessi può apparire inutile, a chi cerca esclusivamente informazioni sull’ultimo film del regista di Four Shades of Brown, tentiamo di contestualizzarla nella speranza di riuscire a essere esaustivi il più possibile: uno dei punti che ci ha colpiti immediatamente, nella scrittura di Lasciami entrare, è la straordinaria capacità di John Ajvide Lindqvist – autore della sceneggiatura, ma anche e soprattutto del romanzo da cui il film è tratto –  di condensare nel personaggio della piccola Eli credenze popolari distanti da un punto di vista culturale e spazio-temporale. Eli, vampiro-femmina come gran parte della tradizione vuole (la obayifo africana, la llorona messicana, le lamie greche e le strix romane, la langsuir malese), nipotina esangue di Carmilla, non può vivere alla luce del giorno, ha la capacità di arrampicarsi anche nei punti più impervi, è velocissima e dotata di un’agilità fuori dal comune, si nutre mordendo con i canini sul collo le sue vittime, si fa accompagnare da un umano che le fa da servo e le procura il cibo, non riesce a trattenere la propria sete alla vista del sangue, trae in inganno con il suo aspetto gli uomini ma non gli animali, e non può entrare in un luogo chiuso se non riceve il permesso dal padrone di casa. Ed è proprio da qui, dal refrain “posso entrare?”, che prende corpo una delle più struggenti e delicate storie d’amore che il cinema avvezzo alle dinamiche adolescenziali ci abbia regalato negli ultimi anni. Tomas Alfredson ha avuto il grande merito di riuscire a cogliere, in maniera sottile e mai forzata, il paradosso insito nella trama che si era impegnato a mettere in scena: sposare all’infanzia e alla pubertà, passaggi temporali nella vita di ogni essere umano dominati dall’instabilità, dall’incertezza, dall’angoscia dell’evoluzione, il funereo contrappunto di una vita che fa dell’atemporalità l’elemento immediatamente riconoscibile (“non è vero che hai dodici anni!”,  afferma Oskar a un certo punto, solo per sentirsi rispondere dall’amica “No, è vero; solo che li ho da molto tempo”). Il bambino biondo vessato dai compagni di classe e la ragazzina brunetta e dal pallore cadaverico sono uguali perché entrambi attraversano la propria età – qualunque essa sia – come esseri marginali di un mondo che li evita e li teme: sì, perché forse il piccolo Oskar è addirittura più pericoloso della bambina dai denti aguzzi, con quella sua rabbia nascosta nel profondo, celata agli occhi degli adulti che non riescono ad accorgersi dei suoi turbamenti. Oskar ucciderebbe, per riuscire a vendicarsi di tutti i soprusi subiti, e lo farebbe per mero gusto, motivazione assai meno “credibile” rispetto a chi, in fin dei conti, agisce solo per soddisfare la propria fame.

Lasciami entrare diventa dunque, minuto dopo minuto, un piccolo saggio sul romanzo di formazione, lacerato all’interno da una saettante parabola orrorifica che ne condensa il significato, metaforizzandolo: i brandelli di horror puro che si fanno strada all’interno di questa pellicola, interamente ambientata in una Stoccolma ovattata e immobile sotto la coltre di neve che l’ha ricoperta, sono gemme di eccezionale potenza visionaria (gli sgozzamenti, l’assalto dei gatti alla donna vampirizzata), a dimostrazione di una cura e di una meticolosità che è doveroso rimarcare. Ben altra la storia rispetto allo stantio ed edulcorato mondo di vampiri vegetariani e progressisti proposti, con pose da MTV Generation, da Twilight; in Lasciami entrare viene resa giustizia alla natura belluina del vampiro, retaggio di un’animalità che rappresenta l’altra metà del mostro. Nel corso del film questo aspetto viene portato alla luce, con estrema lungimiranza, non per sottolineare le azioni predatorie di Eli – al contrario giocate da un punto di vista visivo sulla semplicità dell’inquadratura -, ma per esaltare il sentimento che la lega in maniera indissolubile a coloro che ama: la toccante e terrificante visita al suo servitore all’ospedale, ma soprattutto il pre-finale in piscina, di cui non vi anticipiamo niente per non togliervi la sorpresa, ma nel quale vi raccomandiamo caldamente di notare l’intelligente soluzione registica e il sapiente uso del fuori campo. Anche se forse l’immagine più forte resta la dolorosa e quasi mortale dimostrazione di ciò che significa, per un vampiro, entrare in casa senza aver ricevuto il permesso: Eli la dona a Oskar per rendergli palese il suo totale e incondizionato amore, in una delle sequenze più dolci e romantiche che il cinema mondiale ci abbia regalato.
In un anno di grazia per il cinema europeo dedicato all’adolescenza (Stella, Lol), Lasciami entrare  prende un archetipo narrativo e lo riplasma, senza mai snaturarlo, svilirlo o deriderlo. Non sappiamo come la vedete voi, ma non ci sembra una cosa da poco.

Info
Il trailer di Lasciami entrare.
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