Chengdu, I Love You

Chengdu, I Love You

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Due eretici del mondo cinese come il regista Fruit Chan e il rocker Cui Jian si lanciano in Chengdu, I Love You in un film a quattro mani affascinante ma in parte incompiuto. Titolo di chiusura di Venezia 2009.

La terra trema

Due registi raccontano due diverse storie ambientate nella città di Chengdu. Nell’episodio diretto da Cui Jian, ambientato nel 2029, una ballerina di samba e un esperto di arti marziali, che condividono un passato tragico legato al terremoto del 2008, si innamorano ma sono divisi da un evento carico di rancore. Fruit Chan invece narra una storia d’amore impossibile ambientata a ridosso della morte di Mao nel 1976, e del terribile terremoto di Tanghan dello stesso anno. [sinossi]

La Cina è terra di grandi sconvolgimenti, politici e naturali: questo sembra essere il punto di partenza da cui si è sviluppato il progetto di Chengdu, I Love You (traduzione letterale dell’originale cinese Chengdu wo ai ni), opera a quattro mani firmata da Fruit Chan e Cui Jian e presentata come film di chiusura della sessantaseiesima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Attraverso due episodi, ambientati entrambi a Chengdu (capitale del Sichuan), vengono narrate due storie d’amore: entrambe tormentate, seppur per motivi assai diversi, entrambe a loro modo impossibili, entrambe collegate – in un modo o nell’altro – a un terremoto dalle proporzioni devastanti. Nel primo episodio, ambientato nel 2029, si seguono le vicissitudini di una ragazza e di un ragazzo che erano bambini all’epoca del terribile sisma che ha travolto il Sichuan il 12 maggio del 2008; nel secondo, firmato da Fruit Chan, l’azione è condotta a ritroso nel tempo – come segnalato dall’incipit, con le immagini mandate al contrario – fino al 1976, anno della morte di Mao e del terremoto di Tangshan.

Ci si ferma qui, per il momento: diventa in effetti difficile rintracciare, in questo breve film, altri elementi che permettano di trovare un trait d’union tra le due sezioni di cui è composto. Lo stile, l’approccio narrativo, il senso metaforico dato al sentimento amoroso, l’utilizzo della colonna sonora; a conti fatti non vi è davvero nulla di similare tra l’approccio cinematografico di Fruit Chan e quello di Cui Jian. Non che la cosa possa stupire più di tanto, una volta sfogliato il curriculum vitae dei due registi. Da un lato infatti si ha uno dei nomi più importanti della new wave hongkonghese degli anni ’90, cineasta eretico capace di sfornare opere imperdibili e stranianti quali The Longest Summer – forse la messa in scena più sincera e traumatica dell’hangover [1] –, Hollywood, Hong Kong e Public Toilet; dall’altro Cui Jian, con alle spalle appena un cortometraggio ma in realtà nome indispensabile della cultura cinese contemporanea, dato che è a lui e solo a lui che si deve la proliferazione, all’inizio degli anni ’80, del rock dalle parti di Pechino [2]. Rocker di prim’ordine – per quanto questa accezione sia da considerare solo ed esclusivamente all’interno del rock cinese, visto che a livello mondiale il paragone tra lui e altri nomi risulterebbe per ovvie ragioni ai limiti della blasfemia – Cui Jian non è altrettanto convincente nelle vesti di regista: il suo episodio non solo mostra uno sguardo indeciso, tutt’altro che personale e decisamente appiattito sulla norma in molte delle soluzioni chiave, ma si dilunga per oltre mezz’ora per raccontare una trama che sarebbe stata facilmente sbrogliabile in una decina di minuti. Peccato, perché l’idea di partenza, raccontare il futuro partendo da un tragico evento recente, non era poi così disprezzabile: ma non basta a rendere interessante un pastrocchio che vorrebbe disquisire del labile confine tra amore e odio e finisce ben presto per scadere nel patetico e nel ridicolo involontario.

Così come abbiamo trovato eccessivamente lungo l’episodio di Cui Jian, nel suo frammento Fruit Chan fallisce per il motivo opposto: infarcendo la sua storia, metafora della Cina e delle ambiguità della Rivoluzione Culturale, di trame e sottotrame, finisce per non riuscire a sviluppare appieno tutte le potenzialità dell’episodio. Un personaggio come quello del protagonista, apparente pazzo che nasconde nel suo passato un’infamia con la quale è quasi impossibile convivere, avrebbe davvero meritato uno spazio più consono: mezz’ora è troppo poco per permettere allo spettatore di comprendere sia i personaggi che il riferimento alle tradizioni culturali dell’area di Chengdu. Il risultato finale è ammaliante, grazie anche alla folgorante messa in scena di cui è sempre capace Chan, ma l’operazione rimane fine a sé stessa: che senso ha inserire il lutto nazionale per la morte di Mao in chiusura? Quale senso si vuole dare al cortometraggio? Bisogna essere in grado di gestire il tempo che si ha a disposizione, e questa volta Fruit Chan non si è dimostrato troppo abile a farlo. Nella speranza che abbandoni la “moda” dei film a episodi e torni a confrontarsi con un nuovo lungometraggio.

Info
Chengdu, I Love You, il trailer.

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