Noir océan

Noir océan

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Presentato alle Giornate degli Autori di Venezia 2010, Noir Océan ci riconsegna una lucida visione dell’arte e della vita, intese come estetica e politica al contempo. Una lettura moderna dell’immagine, in cui la finzione è tutto ciò che è linguaggio, è tutto ciò che codifica, irretisce, è tutto ciò che offre una copia colorata della realtà, tutto ciò che ne omette la spazzatura.

Uno sguardo sul non-visto

Tre giovani, a bordo di una nave militare francese nel 1972, partecipano, co-protagonisti inconsapevoli, ai test nucleari a Mururoa, nel Pacifico… [sinossi]
Vorrei fare un film denso ma sottile, carico di emozioni e di tenerezza per questi ragazzi
che già sento come miei figli. Una breve frase chiude il secondo racconto di Mingarelli.
Il narratore, un ragazzo di diciotto anni, dice: “Poi ho pianto per tutte le madri
che non sanno quanto soffriamo”. Il film gli risponderà quasi come un’eco:
«Io piango per tutti i figli che non sanno quanto soffriamo per (con) loro».
– Marion Hänsel

Mururoa, l’oceano, una nave francese, il suo equipaggio. Sono questi gli elementi su cui si sviluppa lo splendido Noir océan di Marion Hänsel. Un’opera in cui i personaggi si muovono dentro lo spazio, nella messa in scena, senza essere mai fuori tempo. La loro evoluzione si può palpare, miglio marittimo dopo miglio marittimo. La nave francese è un’imbarcazione militare, in particolare una di quelle che, tra il 1966 e il 1996, eseguiva i test nucleari al largo delle coste di Muroroa.
In questo contesto la Hänsel osserva con grande sensibilità tre personaggi (ripercorrendo il testo letterario e autobiografico di due novelle scritte da Hubert Mingarelli): Massina, un ragazzo dai buoni sentimenti che cerca di comprendere il senso della sua presenza in quel posto; Da Maggio, una sorta di candido fotografo; e, infine, Moriate, il personaggio più controverso, più combattuto, più rivoluzionario e critico nei confronti di se stesso e della propria presenza sulla nave militare. Attorno a questi tre marinai ruotano gli altri, colleghi di pari rango e superiori.

La nave è vista come un’isola, lontana dal mondo; le regole imposte non permettono di stabilire un vero e proprio legame tra le reclute. I comandi, le esercitazioni, i lavori da svolgere, ogni cosa sembra essere stata studiata appositamente per impedire il più possibile il dialogo. L’assurdità di alcune regole porta più volte i marinai a interrogarsi sulla ragione di assurde imposizioni. Ma la mancanza di risposte e la monotonia di nuovi compiti da svolgere impedisce ogni possibilità di riflessione critica sul senso della loro presenza in quel luogo, in quel momento. Così le pulizie, le flessioni, i turni di notte, le pause dal lavoro, perfino le festicciole di evasione sulle spiagge dell’isola scandiscono un ritmo che ha un unico obiettivo. Non far pensare.
Non importa se poi durante l’esplosione della bomba nessuno indossi la maschera antiradiazioni, obbligatoria durante le esercitazioni, non importa se superiori che dettano regole ferree di giorno, di notte gironzolino ubriachi, sfogando la propria rabbia repressa sul primo che hanno sotto tiro; l’unica cosa fondamentale è che nessuno sviluppi uno spirito critico, che potrebbe essere fatale all’ordine istituito. In questo contesto alienante il giovane Massina si sforza di osservare con più attenzione quello che gli succede attorno. Ma l’isolamento di cui si parlava lo porta ad avere come unico referente un cane.
Il cane Giovanni, durante l’intero film, è l’unico essere vivente in grado di trasmettergli un po’ di affetto. Affetto che però non è sufficiente a far affiorare nel ragazzo una reale presa di coscienza. Tanto che, nel momento in cui Massina subisce una violenza incomprensibile da parte di un suo superiore ubriaco, non avendo gli strumenti per comprendere l’accaduto, non potrà far altro che sfogare anch’egli la propria violenza repressa sul povero cane Giovanni. Il secondo personaggio su cui si sofferma lo sguardo della regista e il candido Da Maggio. Si tratta di un giovane marinaio che rifiuta completamente di aprire gli occhi di fronte la tragicità della missione di cui è complice. Per lui la missione nucleare in cui è coinvolto non significa altro che belle fotografie, la pesca, gli amici, le lettere con i genitori; Anche la fotografia che scatta dell’esplosione atomica si riduce a essere una sorta di paesaggio con un tramonto un po’ più colorato.

Marion Hänsel con il suo Noir Océan ci riconsegna una lucida visione dell’arte e della vita, intese come estetica e politica al contempo. Una lettura moderna dell’immagine, in cui la finzione è tutto ciò che è linguaggio, è tutto ciò che codifica, irretisce, è tutto ciò che offre una copia colorata della realtà, tutto ciò che ne omette la spazzatura. Maiolty, fotografando Da Maggio ubriaco, steso tra le lattine vuote, dirà: questa è la realtà; come per dire che se si vuole essere onesti bisogna fotografare la sporcizia, raccontare dei rifiuti. E tanti sono i rifiuti tossici che si porta dietro un’esplosione nucleare. Realizzare un film significa avere responsabilità; scrivere una storia, scattare delle fotografie vuol dire assumersi delle responsabilità. Così di fronte alla grande responsabilità che si assume uno Stato nel portare avanti esperimenti nucleari per trent’anni, l’arte ha il dovere di mostrare il senso più profondo di quest’azione. Ma in che modo trovare un punto di contatto, la chiave di volta, tra la realtà (del tragico dell’esplosione) e la finzione (cinematografica)? Da dove parte il senso della riflessione della regista?

Un film (l’arte tout court) non deve mai avere lo scopo di essere celebrativo, propagandistico, non deve mai, e sottolineiamo mai, assomigliare alle, seppur belle, fotografie scattate da Da Maggio, ma deve entrare nel cuore della realtà, sviscerarla e carpirne il senso, anche se osservare la realtà comporti una crisi esistenziale.
L’osservazione deve essere una lettura del senso di un avvenimento, ne deve svelare l’ambiguità, deve interpretarlo, ma non deve mai fermarsi a leggerne solamente la superficie. Tanto più se si sta parlando di esplosioni nucleari in paradisi incontaminati. Natura e uomo vengono più che mai in contatto, si scontrano. E le conseguenze di questo impatto sono morte, malattia, guerra. Alla fine, paradossalmente, Noir Océan è un film proprio su queste tre cose: sì, è un film sulla morte, sulla malattia e sulla guerra. Tre concetti di cui, in realtà, non si farà mai neanche un piccolo accenno per tutta la narrazione. Questo perché lo sguardo della Hänsel è uno sguardo sul non visto. Non è un caso che nella scena (simile a quella del giorno del giudizio di Terminator 2) in cui si assiste all’esplosione tutto l’equipaggio porti occhiali oscuranti. Non si deve vedere, ma non per le conseguenze delle radiazioni che ci saranno comunque e inevitabilmente, ma perché deve essere subito rimosso il fine di quel lavoro, l’obiettivo ultimo del viaggio. Massina, riesce a cogliere la realtà, rispecchiandosi sullo sguardo tormentato di Moriaty, rivedendo l’amico prima bambino e poi adulto. Attraverso quello sguardo capisce che la realtà non è solamente quella che si vuole vedere, ma è anche quella che non si vuole o, non si può vedere. Per questo Moriarty, nello splendido finale, ripeterà, ancora una volta, tra le lacrime le parole scritte e sotterrate durante l’infanzia: solamente chi attraverserà il fiume gelato e tornerà indietro sarà veramente libero e vivrà una bella vita. La libertà di affrontare la realtà anche se questa si presenta con la violenza delle acque gelate di un fiume e non con i bei colori di un tramonto sull’oceano.

Info
Il trailer di Noir océan.

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