Quijote

Quijote

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Pur mantenendo qualche riserva su alcune specifiche scelte di Paladino, non si può non rimanere stupefatti di fronte al potere immaginifico di un’opera colta e stratificata, che fa dialogare Cervantes con Borges, così come in scena Peppe Servillo si trova a tu per tu con un commovente, strabordante, irrefrenabile Lucio Dalla, il cui monologo cibario rimane una delle vette di Quijote.

L’era dei paladini è finita

L’Hidalgo della Mancha rinasce a nuova vita ripercorrendo episodi canonici ed apocrifi. Gli orizzonti visivi e sonori si intrecciano fino a confondersi in incroci spazio temporali dove cavalieri erranti del passato e del presente incontrano poeti, maghi, fanciulle, imperatori… [sinossi]
Giace qui l’hidalgo forte
che i più forti superò,
e che pure nella morte
la sua vita trionfò.
Fu del mondo, a ogni tratto,
lo spavento e la paura;
fu per lui la gran ventura
morir savio e viver matto.

Sono passati quattrocento anni da quando El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, il più celebre romanzo eroicomico e picaresco di ogni tempo, vide la luce per mano di Miguel de Cervantes. Sulla celeberrima (e celebrata) maledizione che sembra gravare su coloro che si sono lanciati nell’impervia impresa di ridurne la mole a testo cinematografico (i curiosi sono pregati di scorrere in fretta ai capitoli Orson Welles e Terry Gilliam) non è forse il caso di soffermarsi, in quanto materia abbondantemente trattata altrove e in fin dei conti fuorviante per quella che è invece, al momento, la materia del contendere.

Il 2006, quattrocentesimo anniversario del testo, vide apparire all’orizzonte la figura del dinoccolato cavaliere alla ricerca di gloria e onore in più di un’occasione: tanto per cominciare al 59° Festival di Locarno ci si imbatté nel pessimo Don Chisciotte e…, pastiche in odore di cattiva televisione firmato da Bruno Bigoni. Risultati ben diversi ottenne invece Albert Serra nel mettere mano al testo seicentesco: il suo Honor de cavaleria, trionfatore al 24° Festival di Torino nel Concorso Internazionale Lungometraggi, getta uno sguardo lucido e al contempo alienato, che parte dalla parola scritta per reinventarla attraverso codici visivi che sposano tanto il documentario quanto l’avanguardia. Insomma, una vera e propria messe di appuntamenti per gli amanti di Don Chisciotte e del suo fido Sancho Panza, commemorazione alla quale partecipò anche il 63° Festival di Venezia, ospitando, nel calderone onnivoro della sezione Orizzonti, Mimmo Paladino e la sua multiforme creatura destinata ad attendere, per una vera e propria uscita in sala, la bellezza di cinque anni e mezzo. Solo il solerte intervento di Distribuzione Indipendente ha permesso infatti allo strano esperimento di Paladino di non rimanere rilegato esclusivamente nel campo dei festival e delle proiezioni ad hoc. Cinque anni nel quale il giudizio che avemmo sull’opera ai tempi della proiezione veneziana ha avuto modo di mutare in maniera piuttosto sensibile: quello che ci apparve come un esercizio di alto contenuto estetico ma sterile dal punto di vista prettamente filosofico e narrativo dimostra in realtà la sua urgenza espressiva.

Pur mantenendo qualche riserva su alcune specifiche scelte di Paladino, non si può non rimanere stupefatti di fronte al potere immaginifico di un’opera colta e stratificata, che fa dialogare Cervantes con Borges, così come in scena Peppe Servillo si trova a tu per tu con un commovente, strabordante, irrefrenabile Lucio Dalla, il cui monologo cibario rimane una delle vette del film (chiunque abbia da malignare sull’uscita di Quijote, ritenendola furbescamente accodata al triste decesso del cantautore bolognese, sappia che la data dell’approdo in sala era conosciuta agli addetti ai lavori da mesi).

Quijote deriva in maniera forse fin troppo palese dal corpus dell’opera di Cervantes, eppure appare estraneo a qualsiasi apparentamento ulteriore con la fonte d’ispirazione. Se Paladino lavora in maniera alacre sul contesto, costruendo un set che fa della spazialità e della geometria il senso stesso della propria esistenza, allo stesso tempo non ha timore a fondere il testo con una babele di riferimenti letterari, architettonici, scenografici, iconografici, che ispessiscono l’insieme e lo rendono quasi inafferrabile, al di fuori del tempo e dello spazio. Un risultato raggiunto grazie anche al lavoro tecnico, a partire dal notevole apporto fotografico di Cesare Accetta, che lavora sui contrasti, sulle luci di taglio e sui chiaroscuri con un’accuratezza encomiabile. Un’opera inclassificabile e libera, che anche quando sbaglia lo fa per aver osato troppo, e mai per mancanza di idee. Un’uscita da non lasciarsi scappare.

Info
Il trailer di Quijote
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