Dulcinea

Dulcinea

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Presentato nella sezione Signs of Life del Locarno Festival 2018, Dulcinea, nuovo lavoro di Luca Ferri che racconta un amor cortese nella Milano anni ’90.

Ma tutto questo Dulcinea non lo sa

Una giovane ragazza si prepara a ricevere nel proprio appartamento un cliente. L’uomo, trasposizione di Don Chisciotte nella Milano degli anni ‘90, seguendo una precisa ritualità, si dedica alla pulizia maniacale di quattro stanze. La ragazza, incarnazione di Dulcinea, mangia, legge, si mette lo smalto, fuma, si veste e si sveste, come se Don Chisciotte non fosse presente e come se fra i due non ci fosse alcun rapporto. Il cliente, seguendo uno schema patologico, trafuga alcuni oggetti della ragazza, riponendoli in sacchetti di plastica, e successivamente nella sua valigetta ventiquattr’ore. Altre volte gli oggetti di feticcio vengono distrutti, vittime di raptus maniacali, in una meccanica che conduce alla ripetizione di un rito di celibato e di solitudine. [sinossi]

L’amor cortese, il servizio d’amore, l’amore come vassallaggio, l’amore inappagato, la dama, la creatura angelicata. Antichi retaggi letterari che rappresentano il nucleo del nuovo lavoro di Luca Ferri, Dulcinea, presentato al Locarno Festival, in Signs of Life. Opera che, come enunciato nel titolo, richiama i personaggi della letteratura di Miguel de Cervantes, il Don Chisciotte che notoriamente si gioca sul concetto di anacronismo, dell’illusione della sopravvivenza della cavalleria che non può che andare a lanciarsi contro i mulini a vento. E sull’anacronismo si gioca il lavoro stesso di Luca Ferri che traspone quelle tematiche in epoca moderna, ma non esattamente contemporanea, collocando il tutto una ventina d’anni fa, a metà anni ’90, in quella Milano decadente che stava attraversando il processo di Tangentopoli, un processo alla sua stessa opulenza precedente della Milano da bere, un processo che a cascata coinvolgeva la nazione tutta. La figura di Enrico Cuccia, richiamata dalla voce afona di un radiogiornale, appare funzionale alla ricerca di una drammaturgia naturale, come può esserlo il Re Sole morente di Albert Serra. Un ometto anziano e curvo che si vedeva regolarmente passare a piedi nella milanese piazza Affari, silenzioso – taceva del tutto alle domande dei cronisti che lo assediavano –, eppure detentore di un potere finanziario immenso. La sua stessa deposizione, riportata alla radio, appare esemplare per il dire e non dire: «Mi viene attribuita qualche capacità di valutazione dei rischi. Denaro non ne posso dare, solo consigli. Sono di poche parole. Solo una volta sono intervenuto». Una metropoli scialba, la Milano del film, dai colori spenti, che si vede fugacemente dalla finestra, dove campeggia la Torre Velasca, a sua volta un manufatto anacronistico, edificato nei primi anni ’60, che spunta sulle guglie del Duomo, dal nome spagnoleggiante ripreso dalla piazza su cui sorge dedicata al governatore spagnolo seicentesco Juan Fernández de Velasco. Un’impronta urbanistica degli anni del boom economico come quella che si incarna in Laide, la ragazza oggetto dell’amore impossibile del protagonista di Un amore di Dino Buzzati, altra opera che Luca Ferri dichiara come fonte d’ispirazione.

Dulcinea sta ascoltando i messaggi lasciati sulla segreteria telefonica, altra enunciazione di anacronismo. Una sua compagna le chiede degli appunti universitari, mentre un uomo ha chiamato due volte. Si qualifica come Don Alonso, il nome vero di Don Chisciotte, le ricorda l’appuntamento delle quattro e ribadisce che una sua non risposta vale come silenzio assenso. In questa indifferenza della ragazza sta tutto il senso dell’amor cortese messo in scena da Luca Ferri. Don Alonso/Chisciotte è come un maggiordomo in livrea, si occupa diligentemente dei lavori di casa con una cura maniacale nella totale impassibilità di lei. Lei che forse è rimasta la Laide buzzatiana, o l’edonistica Milano da bere, è dedita tutto il giorno ai suppellettili, alla manutenzione estetica del proprio corpo, al trucco davanti allo specchio, a pitturarsi le unghie, ad aprire un vassoietto di pasticcini. Lei che è la dama angelicata che mostra due tatuaggi sulla schiena come le fessure a effe del violino, richiamando così la sensualità della celebre foto di Man Ray, Le Violon d’Ingres.
Lei che è vista come ritagliata in una sagoma interna dell’inquadratura, a forma di fiore stilizzato, il disegno in una porta a vetri quasi completamente opaca, lei distante, che si mette a fuoco solo successivamente. Lui che si muove con eleganza, con grande pulizia dei movimenti, come in una danza o in un teatro di figura. Dove il climax deflagra schiacciando un pomodoro, o pugnalando un peluche, o azionando un carillon. Lui che si sposta silenzioso: non ci sono dialoghi e allo stesso tempo non è un film muto, per via delle canzoni sentite dalla cassetta del registratore, o per la radio. In una casa che è una natura morta come quelle, nello stile di Morandi, che campeggiano sulla parete del corridoio, dove il regista carrella più volte seguendo il percorso parallelo, nell’altra stanza, dell’uomo che va verso lo sgabuzzino. Con una fotografia, di Pietro de Tilla, che crea rigorose composizioni di immagini. Come l’arabesco delle sponde del letto. Come quegli echi di Ozu, nel punto di vista basso che usa seguendo la lucidatrice, o nel bianco della doccia della vasca interrotto da due macchie arancioni simmetriche, dei saponi, solido e liquido ai lati, come il Maestro giapponese faceva collocando nelle inquadrature le bottiglie di sakè.

Don Alonso / Don Chisciotte continua a strofinare maniacalmente con lo straccio quella vasca da bagno nonostante sia già perfettamente bianca. È la pulizia stessa che persegue un filmmaker rigoroso e ascetico come Luca Ferri, quella di un cinema rarefatto ed essenziale, di un film scandito rigorosamente dai tempi di una sveglia.

Info
La scheda di Dulcinea sul sito del Locarno Festival.
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