Sono entrato nel mio giardino

Sono entrato nel mio giardino

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In questa narrazione, mai didascalica, si parla di divisioni profonde ma si cerca, al contempo, di  tracciare una via che invita alla reciproca conoscenza, alla tolleranza e alla condivisione. Sono entrato nel mio giardino è tra i film della sezione sezione CinemaXXI del Festival di Roma 2012.

Un appello al dialogo

È esistito davvero: era un mondo dove le comunità non erano divise da confini etnici e religiosi e dove non esistevano barriere, nemmeno metaforiche. L’avventura comune di Ali e Avi è un viaggio nella propria storia e in quella dell’altro, in una sorta di macchina del tempo nata dall’incontro di due amici in cammino nella terra che appartiene a entrambi, alla riscoperta dei luoghi della nostalgia. Si scambiano lingua e ricordi, illuminati sempre dalla viva luce dell’intelligenza e del cinema. Tutto è ancora possibile... [sinossi]

Il regista israeliano Avi Mograbi torna ancora una volta sul conflitto arabo-israeliano nel suo documentario Sono entrato nel mio giardino, in concorso nella sezione CinemaXXI al Festival Internazionale del Film di Roma 2012. Lo fa attraverso un viaggio a ritroso nel tempo, alla riscoperta di un luogo dove non c’erano ancora differenze e divisioni, da cui emergono gradualmente alcune delle profonde lacerazioni inferte alla popolazione nella ridefinizione dei confini medio-orientali dopo la proclamazione dello Stato di Israele.
A rivelarci queste ferite è l’amicizia proibita tra Avi e Ali. Trapelano durante le loro conversazioni in cucina, nello scambio di fotografie e di ricordi lontani e nella condivisione dei luoghi del proprio passato. Il pretesto per girare il film è un sogno, quello dell’incontro tra Avi Mograbi e suo nonno Ibrahim, nel 1920, fuori dalla casa di Damasco. Nel sogno i due non parlano la stessa lingua e Ibrahim comunica al nipote la sua intenzione  di partire per Tel Aviv, lasciando la casa di Damasco. Nello stesso sogno Avi decide di non partire, di restare per badare alla casa. E per mettere in scena questo incontro impossibile il regista interpella Ali.

Il film si apre in medias res, entrando direttamente nella scena senza neppure la mediazione dei titoli di testa, quasi fosse ulteriormente necessario rimarcare la verità delle cose che si stanno raccontando. Dalla conversazione in cui Avi e il suo insegnante di arabo Ali Al-Azhari discutono i dettagli della scena da girare, affiora una spontanea confidenza. Anche Ali ha un passato da raccontare, la sua stessa vita assurge a simbolo avendo vissuto gran parte della sua esistenza a Tel Aviv, come un rifugiato in patria, con la moglie ebrea da cui ha avuto una bambina. In questa narrazione, mai didascalica, si parla di divisioni profonde ma si cerca, al contempo, di  tracciare una via che invita alla reciproca conoscenza, alla tolleranza e alla condivisione. La portata del documentario di Mograbi risiede nel fatto che egli non si limita a denunciare un’imposizione che ha inflitto così tante pene generando poi una catena inarrestabile di conflitti, quanto piuttosto nell’appello al dialogo per una riconciliazione che possa finalmente affermare una pacifica convivenza interreligiosa. A questo invito corrisponde la scelta formale di raccontare i fatti sotto la forma di un dialogo continuo, senza che mai vi siano pretese o rivendicazioni. Analogamente, la presenza della piccola Yasmin, nata da padre arabo e madre ebrea e simbolo di un’unione possibile, proietta il film anche in una dimensione futura e riflette la speranza riposta nelle nuove generazioni, cui spetterà il compito di compiere ogni sforzo possibile per andare verso un futuro di integrazione.

In questo flusso delicato di parole e di gesti tra Avi, Ali e la piccola Yasmin, si inseriscono quattro intermezzi particolarmente intensi. Si tratta delle lettere di una donna, ebrea libanese, scritte al suo amante. Sullo scorrere di immagini in super-8 girate in mezzo a strade vuote, la voice over della donna racconta lo strazio di un amore bruscamente interrotto.
La fatica di riuscire a cogliere l’essenza dell’opera nelle parole di due amici che si rifiutano di essere nemici, spetta a noi. Non stupisce quindi che il pubblico possa incontrare qualche difficoltà nella sua interpretazione, tacciandola di eccessivo ermetismo. Ciò rappresenta purtroppo un limite per la fruizione di un film di valore, il cui messaggio politico irrompe con la forza gentile della nonviolenza gandhiana.

Info
Il trailer di Sono entrato nel mio giardino.

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