Intervista a Ciro Giorgini – parte seconda

Intervista a Ciro Giorgini – parte seconda

Percorsi e diatribe intorno alla “magnifica ossessione” wellesiana: la seconda parte dell’intervista a Ciro Giorgini, incentrata sulle versioni multiple di Mr. Arkadin e sull’esperienza di Fuori Orario.

Leggi la prima parte dell’intervista, dedicata al ritrovamento di Too Much Johnson e alla questione relativa al passaggio dalla pellicola al digitale.

Leggi la terza parte dell’intervista, incentrata sulle numerose controversie riguardanti il Don Chisciotte.

Come è cominciato il tuo lavoro a Fuori Orario e come hai conosciuto Enrico Ghezzi?

Io venivo da un cineclub, l’Officina Film Club di Piazza Verbano, qui a Roma, che è stato aperto dal ’76 all’86. È stata un’esperienza formativa, andavamo forti, proponevamo ogni tipo di cinema. Ed è lì, verso il ’76, che abbiamo conosciuto Enrico perché lui doveva fare questa rassegna, molto bella tra l’altro, che si chiamava “Vienna Berlino Hollywood”, in cui si raccontava il percorso americano dei grandi esuli tedeschi, ungheresi, ecc. Dovrei avere ancora il catalogo da qualche parte…Considerate che fino a quel momento il campo era aperto, non era mai stato fatto nulla del genere. In TV invece la prima cosa che invece abbiamo fatto insieme a Enrico, al fianco anche del carissimo amico Marco Melani – e la prima iniziativa organica, nel senso che è stata fatta con uno staff ampio – è stata la trasmissione “La magnifica ossessione” per i novanta anni della nascita del cinema. Era il dicembre dell’85 ed Enrico, che ancora non era un dirigente di Rai 3 – la stagione della rete diretta da Guglielmi doveva ancora arrivare – ma era un semplice programmista-regista, riuscì quasi a ipnotizzare il management di Rai 3 e convincerli a fare questa bellissima follia: 36 ore consecutive di solo cinema! Enrico convinse il direttore di Rai 3 dell’epoca, che era un signore democristiano vecchio stampo, molto bonario, una specie di agente della Coldiretti, ma colto. Si chiamava Falcone. Considerate che fu un’impresa non da poco visto che Rai 3 all’epoca era ancora una rete fatta soprattutto di pezzi regionali, con le sedi locali che avevano un peso enorme e quindi avevano tutta una serie di privilegi…

Possibile che fosse peggio di oggi?

Beh, insomma era molto da Prima Repubblica. C’erano le spartizioni tra i partiti, eccetera. Ma in questo grande casino che era la RAI dell’epoca, forse le dinamiche – anche quelle dei privilegi e dei luoghi di comando – erano più semplificate. Comunque riuscimmo a fare queste 36 ore di cinema continuativo. Erano saltati tutti i palinsesti, ma qualcuno riuscì comunque a impedire parzialmente questo flusso, questo momento unico di cinema in TV. L’unico che non volle concedere il suo spazio fu De Michelis, il socialista, che all’epoca era presidente della Federazione italiana di pallacanestro e che impose di non lasciare alla rete lo spazio destinato a questo sport. Per cui ci furono queste 35 ore e 40 minuti di cinema interrotte a un certo punto da una partita di pallacanestro. Però diciamo che insomma in quelle 35 ore e 40 minuti ci siamo scatenati.

E invece qual è stata la tua prima “esperienza wellesiana”?

Nel febbraio del ’77 al nostro cineclub ripetemmo la rassegna su Orson Welles fatta a Milano. L’importanza di quella rassegna, che poi circuitò un po’ in tutta Italia, fu notevole. Loro furono i primi a mostrare queste copie, quasi nessuna esclusa. Fino al ’76 se un appassionato, un critico, una cineteca, avesse voluto fare un omaggio a Welles avrebbe trovato solo una pessima copia di Quarto potere alla Cineteca Nazionale.

Ah sì, quell’edizione italiana del film, tagliata di più di un quarto d’ora rispetto all’edizione che si vede normalmente nel resto del mondo.

Sì, infatti, che poi la storia dell’edizione italiana di Quarto potere è alquanto peculiare: la Titanus decise di far uscire di nuovo il film nel ’65 e visto che durava 119 minuti volevano tagliarlo, per consentire alle sale di fare il numero abituale di spettacoli, evitando sia pur per poco di far fare gli straordinari ai proiezionisti. Pensate, chiamarono Roberto Perpignani e gli dissero: “Visto che hai lavorato con Welles, non è che puoi tagliarlo tu il film? Servono una decina di minuti in meno e, vedendolo, abbiamo notato che proprio all’inizio c’è un pezzo di cinegiornale, non è che puoi tagliare quello? Tanto il film fila lo stesso perfettamente e non se ne accorgerà nessuno”. Lui ovviamente si rifiutò, ma poi evidentemente hanno deciso di tagliarlo per conto loro, salvando per fortuna la sequenza del cinegiornale. Questo per dire comunque quanto fosse clamorosa la mancanza di rispetto nei confronti del cinema, ancora negli anni Sessanta e quanto invece sia stata importante la stagione dei cineclub del decennio successivo. Quindi, per tornare a noi, sempre nel ’77, decidemmo che volevamo provare a proiettare anche F for Fake, che al’epoca stava per uscire in Italia. Eravamo riusciti a entrare in contatto con una persona. Eravamo ancora dei ragazzini inesperti e contattiamo questo tipo che ci disse: “Sì, vi porto io F for Fake“. Era un produttore, uno di questi uomini navigati del cinema romano che conosceva tutti, si chiamava Pietro Panza ed era in effetti un uomo in gamba e generoso, che però si approfittò un po’ di noi. Insomma, si presentò in taxi e ci chiese: “Potete regolare voi?”. Pagammo il taxi e prendemmo le pizze dal bagagliaio. Per noi avevano qualcosa di magico perché il film ancora non era uscito a Roma. Avremmo fatto solo una proiezione, però con tutti i fasti di un’anteprima importante. Prendemmo questi rulli e li portammo in cabina. Panza rimase un po’ con noi, poi andammo a mangiare e gli offrimmo un’ottima cena. Io ero rimasto in cabina a montare il film, ero entusiasta però, poi, vedendolo mi sono insospettito. Mi ricordavo infatti in base a quello che avevo letto che il film era a colori e invece lì era in bianco e nero. Questo paravento di Piero Panza, pace all’anima sua, ci aveva portato i rulletti per il doppiaggio che ovviamente erano stampati in bianco e nero e noi ci siamo cascati dentro con tutti i piedi. Pensavamo di aver proiettato F for Fake e invece non era propriamente così. Questa è stata la prima trappola in cui siamo caduti un po’ tutti da quando abbiamo cominciato a occuparci di Welles. Poi ce ne sono state tantissime altre.

A proposito di questo, ci accennavi a Mr. Arkadin, a quel che hai definito una vera e propria “deviazione cerebrale” per questo film.

Sì, beh, considerate che tutto quel che ha riguardato Welles in questi ultimi trent’anni è esulato completamente dai canoni normali dell’accesso. Basti pensare al ritrovamento fortunoso di Portrait of Gina nel 1986, la cui copia era stata lasciata da Welles anni prima in una camera d’albergo del Ritz a Parigi e l’albergatore non era più riuscito a ricontattarlo. Oppure, per venire a Mr. Arkadin, pensate a come è cominciato tutto: avevo un carissimo amico che era il fondatore e direttore della cineteca del Lussemburgo. Si chiamava Fred Junck ed era esattamente la copia-carbone di Orson Welles. Ad un certo punto venne contattato da qualcuno che gli chiese se voleva comprarsi i ciak, i tagli di Confidential Report. Del film, infatti, esisteva già allora questo doppio titolo: Mr. Arkadin o Confidential ReportRapporto confidenziale in italiano. Ma sembrava solo un caso di doppio titolo e non un indizio di versioni diverse del film.

In che anni hai avuto questa ossessione per Mr. Arkadin/Rapporto confidenziale?

Dal ’90 al ’93 non ho fatto altro che lavorarci, ci ho proprio perso la testa intorno ad Arkadin. Ero davanti alla copia italiana del film che avevamo in Rai, quando mi telefona un amico dall’America e, dopo qualche premessa di prammatica, mi dice a bruciapelo: “Ma l’hai mai vista la copia integrale di Mr. Arkadin?”. E io con molta prosopopea gli risposi: “Ma che vai raccontando?” Era già da un po’ che ci lavoravo e credevo di saperne abbastanza. Comunque mi arriva questa fantomatica versione integrale dal Massachusetts. Porto la pellicola al telecinema della RAI, poi vado a riprendere il riversamento e restituisco la copia. Solo qualche tempo dopo, vidi questa “versione integrale” e rimasi molto sorpreso perché anche se il film era indubbiamente quello, aveva qualcosa di diverso. Allora misi questa versione e l’altra a confronto su due monitor e feci quella che si definisce come “visione al passo”. I due film non marciavano paralleli: in uno, dopo tre minuti c’è una dissolvenza e si va da una parte, mentre nell’altro, sulla stessa dissolvenza, si prende un’altra direzione. Il film è molto complesso, non so se vi ricordate, è fatto di una serie di flashback e di viaggi per recuperare la verità su Mr. Arkadin, per cui il protagonista, Van Stratten, va a Montecarlo, poi in Spagna, poi a Monaco per raccogliere delle testimonianze dirette e mettere insieme i frammenti di ciò che aveva fatto Mr. Arkadin prima di diventare ricco. Van Stratten infatti viene incaricato da Mr. Arkadin in persona durante una festa di fare un rapporto confidenziale su quelle che erano state le sue attività in passato, perché lui voleva scoprire quante persone ne erano al corrente e poi ucciderle. Queste due versioni dunque divergevano completamente, e inoltre trovavo delle sequenze in cui il protagonista iniziava a parlare con un tono e poi alla fine della sequenza parlava in un tono diverso rispetto all’altra copia del film. Allora, forse ingenuamente, scrissi a James Naremore e poi a Jonathan Rosenbaum [due esperti americani del cinema wellesiano, n.d.r.] per raccontare cosa avevo scoperto e chiedere a loro, con molta umiltà, se ne sapessero qualcosa. Non ricevetti risposta, ma dopo qualche mese uscì un articolo di Rosenbaum su Film Comment intitolato “The Seven Arkadins” [questo il link al saggio, ripubblicato sul blog di Rosenbaum, n.d.r.]. Lui aveva fatto una accurata ricerca recuperando le varie versioni, tra cui una versione radiofonica e una sceneggiatura completamente diversa da quella che conoscevamo e che poi mi inviò, e aveva scritto questo articolo.

È dunque da questo lavoro di Rosenbaum che nasce poi l’edizione multipla edita dalla Criterion nel 2006, The Complete Mr. Arkadin A.K.A. Confidential Report?

No, quella l’ha fatta Stefan Droessler, il direttore del Munich Film Museum, cui Oja Kodar ha lasciato qualche anno fa tutto il materiale che aveva di Orson Welles. Droessler ha messo insieme tutti i pezzi che aveva per fare una versione più lunga del film. Ma dopo tanti anni ho capito una cosa di fondamentale importanza: io non ho mai sentito parlare di una copia-lavoro di Il conformista o de L’ultimo imperatore, mentre di Orson Welles vedo continuamente venire alla luce nuove cose. Il fatto che lui abbia lasciato così tanti film non finiti e così tante tracce – sia dei suoi “unfinished” che dei film finiti, “chiusi” – dimostra una volontà di assoluta libertà da parte di un autore che non voleva farsi imprigionare in una forma data.

Come sei arrivato a questa conclusione, in particolare in relazione a Mr. Arkadin?

L’ho capito quando ricontattai il mio amico Junck e vidi fisicamente la pellicola che aveva acquistato. Erano trenta bobine. Vedendo quella copia del film capii che quella era la copia-lavoro, con tanto di segni di gesso sul 35mm, dove si poteva avere la testimonianza diretta dei tagli fatti con il montaggio, cioè io vedevo il segno del gesso che indicava la dissolvenza e poi su un altro rullo la stessa inquadratura di partenza però con una dissolvenza che portava da un’altra parte. Per cui capii che, a seconda del paese, dalla variante e del lavoro che aveva in testa, Welles aveva fatto una diversa versione del film.

Non esiste insomma una versione definitiva di Mr. Arkadin/Rapporto confidenziale? E, soprattutto, non esiste volutamente?

È così. Ho creduto per anni di poter essere quello che trovava la versione definitiva di Mr. Arkadin. Per qualche tempo ho avuto questa convinzione molto presuntuosa, ma oggi dopo vent’anni sono arrivato a questa conclusione. Esistono sette diverse versioni del film: c’è Confidential Report così come è uscito in Francia, in Italia e in buona parte dell’Europa, poi Welles ha fatto una versione per gli Stati Uniti, poi una per la Spagna con attori diversi, spagnoli, poi c’è la sceneggiatura ritrovata da Rosenbaum che è completamente diversa perché ambienta tutta la storia a Venezia, poi c’è la versione radiofonica, poi c’è il romanzo che sembra non sia suo ma non è sicuro e infine c’è una versione che esce solo in Inghilterra. La versione americana tra l’altro, che è uscita solo nel ‘62 grazie all’iniziativa di Peter Bogdanovich, è molto curiosa perché è tutta in flashback, inizia nella casa di Monaco e poi va tutta all’indietro. Mi sono fatto insomma l’idea che Orson Welles abbia venduto la stessa storia sette volte e si sia fatto pagare sette volte. Non c’è la versione originale, io posso dire che mi piace di più Rapporto confidenziale, però è una mia opinione, un giudizio estetico. Lui ha venduto l’idea e l’ha riadattata, con una flessibilità incredibile.

Nel libro-intervista di Bogdanovich Welles dice che avrebbe voluto iniziare Mr. Arkadin con una donna morta nuda sulla spiaggia. Si ispirava forse al caso Montesi? Hai rintracciato da qualche parte questa inquadratura?

Sì è vero, poi non è andata così, ma quell’inquadratura comunque esiste, l’ho vista in uno degli scarti del girato.

A proposito dei tanti, tantissimi ciak di Mr. Arkadin, ci sono quei meravigliosi ciak ripetuti – che siamo riusciti a vedere proprio perché li avete mandati voi a Fuori Orario – del dialogo tra Arkadin e il suo antagonista, Van Stratten, sul tetto del castello. Alle spalle di Arkadin ci sono sullo sfondo le merlature del castello che rivelano il suo legame simbolico alla terra e allo stesso tempo il suo potere antico, primigenio. È proprio grazie a questi ciak ripetuti che si riesce a scandagliare meglio il film, ragionando sulle scelte di Welles fatte per ogni singola inquadratura.

Sì, è proprio così. Anni dopo infatti ho deciso di fare una notte per Fuori Orario dove ho rimesso insieme tutto il materiale che avevo in forma aperta con un montaggio a fisarmonica, per cui si andava avanti e indietro e mostravo tutte le possibilità diverse di percorso, come in un grande crittogramma, un gioco di enigmistica dove alla fine è lo spettatore a decidere quale versione preferire. Non sono riuscito a mostrare tutto anche per questioni di spazio. Ho fatto un’edizione che è durata sette ore e mezza, senza voler chiudere niente, perché Welles il film ce lo ha consegnato così, aperto, quindi ho fatto solo quello che credo sia il mio mestiere.

Questo è quello che Enrico Ghezzi ha definito la coda della cometa, mettendo in risalto come i frammenti del cinema wellesiano siano importanti quanto i film finiti, se non di più, proprio perché evidenziano la metodologia del suo lavoro. In questo tipo di lavoro Welles può essere considerato un apripista, un caso assolutamente unico? Questo comporta però che sarebbe bello poter vedere tutti questi frammenti per poterli giudicare e passare in rassegna a confronto del suo cinema compiuto.

Certo, però stiamo parlando di un destino assolutamente non commerciale per questi frammenti. È così che la vedo. Io posso mettere in fila le parti montate e poi tutte quelle esistenti ancora non montate divise per rulli ed editarle anche in home video, poi però tu spettatore fai il tuo montaggio personale, perché io non ho alcuna autorità per farlo. Ce l’aveva solamente Welles. In altre occasioni, per altri film, ha voluto chiarire quale fosse la versione giusta, ovvero la sua: per esempio l’ha fatto per L’infernale Quinlan e per L’orgoglio degli Amberson, dicendo che la sua versione è andata perduta, ma magari non è così, chissà. Anzi, secondo me sarebbe magnifico che fossero proprio i rulli perduti degli Amberson il prossimo appuntamento per gli studiosi di Welles! Ma la mia è solo una speranza!

Leggi la prima parte dell’intervista a Ciro Giorgini, dedicata al ritrovamento di Too Much Johnson e alla questione relativa al passaggio dalla pellicola al digitale.

Leggi la terza parte dell’intervista a Ciro Giorgini, incentrata sulle numerose controversie riguardanti il Don Chisciotte.

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