Too Much Johnson

Too Much Johnson

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Operazione manierista ante litteram: è il film del ’38 di Welles, Too Much Johnson, dato per perso e ritrovato da Le Giornate del Cinema Muto. Sessantasei minuti di slapstick comedy che rifanno il verso alle comiche anni ’20.

New York, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Un uomo, che con il nome fittizio di Alfred Johnson si finge proprietario di una piantagione di zucchero a Cuba, viene sorpreso a letto con la sua amante dal marito di lei. Questi riesce a strappare alla donna un pezzo della foto che ritrae il presunto Johnson e comincia a inseguirlo per le strade della Grande Mela, folle di gelosia. I due provocano scompiglio sia in un mercato sia sui tetti della città sia in una manifestazione di suffragette e arrivano fino a una nave che li porterà proprio a Cuba, dove continueranno ad inseguirsi… [sinossi]
Per vedere Too Much Johnson sul sito della National Film Preservation Foundation clicca a questo link.

Del clamoroso ritrovamento dell’unica copia rimasta di Too Much Johnson ne abbiamo parlato nell’intervista a Piero Colussi, fondatore dell’associazione Cinemazero di Pordenone in cui sono stati scoperti i dieci rulli del film; del complesso restauro dell’opera di Welles del 1938 invece ne abbiamo dato conto nell’intervista a Paolo Cherchi Usai, curatore delle operazioni di restauro e socio fondatore – al pari di Colussi – delle Giornate del Cinema Muto; ora, è il momento di parlare in maniera più approfondita del film in quanto tale e di quanto può aggiungere alla già sterminata – ma sovente ingabbiata in formule troppo schematiche – esegesi del cinema di Orson Welles.
Too Much Johnson entrerà nelle monografie dedicate al regista di Quarto Potere come il suo unico film comico e dunque già solo questo motivo è utile per mettere in luce una tendenza alla commedia che Welles – abilissimo, da buon shakespeariano, nel modulare differenti registri – ha mostrato, sia pure in maniera mai predominante, in tutti i suoi lavori, finiti e non finiti: dallo stesso Quarto potere a L’orgoglio degli Amberson, passando per L’infernale Quinlan, per Falstaff, per il Don Chisciotte e per i suoi lavori televisivi, fino ad arrivare a F for Fake (che, se vogliamo, è una sorta di commedia dei paradossi intorno al concetto del Falso).
Certo, un elemento fondamentale va tenuto in considerazione nell’approcciarci a Too Much Johnson e cioè la sua stessa impostazione, concepita non come film autonomo ma come accompagnamento filmato dell’omonima commedia teatrale di William Gillette che Welles, con la sua compagnia del Mercury Theatre, mise in scena nell’agosto del ’38 allo Stony Creek Summer Theatre. Il girato di Welles doveva dunque essere diviso in tre parti, ciascuna delle quali sarebbe servita da prologo a ognuno dei tre atti della commedia. Le durate di questi tre prologhi dovevano essere rispettivamente di venti minuti, dieci e poco più di dieci, per un totale all’incirca di 45 minuti.
Ma il teatro in cui andò in scena Too Much Johnson non era attrezzato per delle proiezioni e allo stesso tempo Welles aveva finito i soldi a disposizione per allestire un altro spettacolo (Danton’s Death). Così il girato di Too Much Johnson, con un montaggio incompleto, venne abbandonato al suo destino. Quel resta oggi a noi è una copia-lavoro lunga 66 minuti, venti in più perciò rispetto alla durata prevista (e probabilmente incompleta in alcune parti. Non si vede ad esempio nessuna eruzione di vulcani a Cuba, sequenza cui Welles accenna nel libro-intervista di Peter Bogdanovich).
Tutta questa premessa è fondamentale per evitare ogni tipo di confusione su cosa aspettarsi da Too Much Johnson. In proposito, quel che è stato proiettato in prima mondiale alle Giornate del Cinema Muto lo scorso nove ottobre, come ci ha raccontato Cherchi Usai, rispetta filogicamente – e giustamente – l’ordine e il contenuto di quanto ritrovato. Ciò significa, tra le altre cose, che a tratti ci sono dei ciak ripetuti.
Questo però non vuole dire che Too Much Johnson debba essere considerato alla stregua di un cimelio per addetti ai lavori, anzi, si dovrebbe fare in modo di rivolgerlo a un pubblico il più ampio possibile (con proiezioni sia sugli schermi di altre città, ma anche con un’uscita in DVD). E ciò è necessario per almeno due motivi: il primo è che Too Much Johnson risulta effettivamente un film comico, una lunga slapstick comedy che si rifà alle comiche degli anni ’20, e a tratti riesce ad essere davvero divertente; il secondo motivo, invece, è più ampio e mette in discussione il concetto stesso di compiutezza filmica, non privo di una sua connotazione pedagogica. Per un’arte come il cinema che ha ormai ampiamente superato il primo secolo di vita è necessario che prenda piede sempre più una consapevolezza storiografica e critica che, come succede da tempo per le altri arti, vada a comprendere, valutare, studiare, far vedere anche tutta l’ampia gamma di incompiuti. E’ necessario poter valutare e apprezzare anche l’idea del frammento filmico, così come già accade per la pittura o per la scultura (e, del resto, i macro-contenitori dei DVD o dei Blu-ray potrebbero offrire tutto lo spazio possibile; come, solo per fare un esempio, è accaduto per il magnifico cofanetto della Criterion dedicato a Mr. Arkadin).
E in questo concetto del frammento, dell’incompiuto Orson Welles è – suo malgrado – il capofila, viste le tante pellicole non finite della sua filmografia.
Perciò quello che purtroppo non è stato possibile finora con altri incompiuti wellesiani (da The Deep al Don Chisciotte, da The Other Side of the Wind a The Dreamers), si spera che abbia in Too Much Johnson l’apripista per un universo di visioni ancora tutte da scoprire (e che sono state mostrate, in via del tutto eccezionale, al festival di Locarno del 2005).

In questo magma pressoché invisibile di non finiti wellesiani, Too Much Johnson occupa un posto del tutto particolare: sia perché, come detto, è un film prettamente comico, sia per la sua prematurità. Girato nel 1938, tre anni prima di Quarto potere, quello che ora bisognerà forse individuare come l’esordio wellesiano è già un precisissimo attestato delle enormi potenzialità che Welles avrebbe poi sviluppato in seguito. Il primo e più eclatante segno wellesiano è la profondità di campo. L’uso delle focali corte attraversa tutto il percorso del film, dall’unica sequenza in interni – quella della scena d’amore tra il finto Johnson e la sua amante – alle riprese dei tetti di New York fino al paesaggio tropicale e piovoso di Cuba. In più, già qui è evidente la predilezione del cineasta americano per le riprese dal basso e per i consueti primi piani “distorti”: non solo nelle sequenze girate sui tetti, dove le riprese dal basso e “fuori bolla” sarebbe quasi ovvio aspettarsele da uno come Welles, ma anche nella sequenza d’interni.
Insomma, sia pur girato in fretta e senza la preparazione e lo studio che avrebbe portato a Quarto potere (“Tutto quello che sapevo l’avevo imparato in sala di proiezione, dal Ford di Ombre rosse“, dice Welles, sempre a Bogdanovich), il futuro cineasta mostra già una notevole consapevolezza cinematografica e un gusto – assolutamente personale – per la messa in scena.

Ma c’è da dire di più: Too Much Johnson è una operazione tipicamente manierista: l’omaggio alla slapstick comedy degli anni ’20 non si limita infatti alla riproposizione di temi e contenuti tipici di quel genere (l’inseguimento urbano, per l’appunto), ma scende più in profondità: lo dimostra il fatto che Welles fece girare al suo operatore Harry Dunham la manovella a una velocità inferiore dei 24 fotogrammi al secondo, in modo tale da riprodurre in sede di proiezione il movimento accelerato degli attori tipico delle comiche di più di un decennio prima; inoltre, appaiono in scena diversi poliziotti abbigliati al tipico modo dei Keystone Cops di sennettiana memoria e gli attori sono truccati in maniera eccessiva e palese, così come accadeva tradizionalmente nel cinema muto; infine, si percepisce – come di nuovo in tanti film di quell’epoca, a partire da Preferisco l’ascensore (Safety Last, 1923) con protagonista Harold Lloyd – un evidente e reale senso del pericolo, in cui gli attori hanno messo davvero a repentaglio la loro incolumità.
Probabilmente, visto come sminuiva la portata teorica dei suoi lavori, Welles si sarebbe fatto una risata di fronte a questa considerazione, eppure ci sembra giusto dire che Too Much Johnson appare come uno straordinario cimelio di cinema manierista ante litteram, di operazione consapevolmente “storicista” e critica, forte insomma di un carattere fondamentalmente autoreferenziale e largamente anticipatore di tutta una serie di riflessioni che prenderanno piede solamente qualche decennio più in là.

Ma Too Much Jonhson, ai di là di tutte le considerazioni già fatte, sembra avere anche una – sia pur esile – coerenza narrativa. In qualche modo – e crediamo inconsapevolmente – il film arriva a dilatare e “essenzializzare” il fil rouge classico delle comiche anni ’20: la meccanica dell’inseguimento, per l’appunto, che – preso il via dalla scena in casa dell’amante – prosegue per tutto il resto del film, con una grandissima variazioni di toni, luoghi e set. In tal senso, protagonisti assoluti della pellicola sono due attori, Joseph Cotten e Edgar Barrier (che rivedremo nel cinema wellesiano in Macbeth), che interpretano rispettivamente il ruolo del finto Johnson e del marito cornificato. Cotten, in particolare, sia detto en passant, dimostra una verve e una capacità acrobatica che per certi aspetti appare all’opposto di tutta la sua carriera successiva, sempre declinata secondo una linea della rigidità, sia fisica che psicologica. E anche qui – nell’esasperazione del percorso dei due protagonisti – pare di leggere, sia pure con un po’ d’esagerazione, la classica dinamica del cinema wellesiano, quella di mettere a confronto due antagonisti, nell’idea insomma del percorso dello scorpione e della rana raccontato in Mr. Arkadin. Con la differenza essenziale che in Too Much Johnson i due sono mossi da istinti primari e non sono costruiti su alcuna meccanica psicologista; sono, insomma, dei puri vettori dell’azione.

Certo, come ha notato Cherchi Usai nell’intervista che ci ha rilasciato, non si può parlare di vero e proprio ritmo in Too Much Johnson, vista la sua natura di film incompiuto. Forse una sola sequenza – indubbiamente la più bella del film – presenta un montaggio definitivo: è proprio quella che si svolge nella camera da letto dell’amante di Cotten/Johnson. Qui, la dinamica comica arriva dalla presenza in scena di una pianta le cui foglie continuano a sbattere sulla testa di Cotten, distogliendolo dall’atto sessuale. Ma visto che, ovviamente, non si vede nulla dell’atto – anzi, è tutto suggerito e i due rimangono sostanzialmente vestiti – Welles gioca con un montaggio elusivo e con tagli rapidissimi e sbalorditivi, cambiando ripetutamente punto di vista. Una sequenza che, con il suo montaggio modernissimo, sembra clamorosamente anticipare l’ardita estetica della scena di sesso di Una storia immortale (1969), una sensazione che forse è confermata dal fatto che lo stesso Welles – secondo le prove verificate da Cherchi Usai – ha rimesso mano al montaggio del film negli anni Sessanta, ma solo per uno o due giorni (e quindi il grosso del lavoro doveva essere già stato fatto all’epoca).

Almeno un’altra sequenza di Too Much Johnson, infine, merita di entrare tra i picchi del cinema wellesiano (oltre a tutta una serie di inquadrature e di mini-sketch a tratti strabilianti), quella dei cappelli. Il marito geloso, infatti, ha a disposizione una foto di Cotten/Johnson in cui si vede quasi solamente l’attaccatura dei capelli. Preso perciò da una follia predatoria, comincia a togliere il cappello a chiunque incontri per strada, sperando di cogliere sul fatto il famigerato Johnson. Da qui – ma la sequenza non ha un montaggio definitivo, il che la rende, se possibile, ancora più divertente – si sviluppa tutta una dinamica di variazioni sul tono – in particolare per le diverse e bizzarre espressioni dei passanti “denudati” del copricapo – che è sia una precisissima riscrittura del meccanismo delle gag delle comiche cui Welles guarda, sia una operazione che “trascende” il modello. Infatti, la durata della sequenza è tale da offrire una varietà quasi infinita di soluzioni (quasi allo stesso modo dei cambiamenti di vista nella sequenza dell’atto sessuale), ma – ed è anche qui la sua grandezza – si chiude con diverse riprese dall’alto che mostrano Edgar Barrier furioso, disperato e circondato da centinaia di cappelli ormai privi del loro proprietario. Uno scarto di tono che fa ascendere il momento a una surreale – e a suo modo drammatica – visionarietà.
Si potrebbe parlare ancora di Too Much Johnson, ma servirebbe senz’altro una seconda visione. A questo proposito, siamo curiosi di sapere come verranno organizzate le prossime proiezioni pubbliche del film. La più ravvicinata è quella che si tiene proprio oggi, mercoledì 16, al George Eastman House. Ma qui, come del resto è successo a Pordenone per Le Giornate del Cinema Muto, vi sarà senz’altro Cherchi Usai a fare da cerimoniere e da commentatore. Tutte le informazioni fondamentali alla comprensione del film sono infatti state esposte dallo stesso Cherchi Usai nel corso della proiezione, un’operazione che è parsa simile a quella che si usava nel cinema giapponese muto con la presenza della figura del benshi a commentare il film (una tradizione unica che, tra l’altro, è stata riproposta proprio quest’anno alle Giornate del Cinema Muto). Le prossime – e si spera numerose – proiezioni del film come avverranno? Forse, l’unica possibilità sembra essere quella di far precedere Too Much Johnson da brevi didascalie che spieghino l’eccezionalità del suo caso. Ma, chissà, si potrebbe anche provare a lasciarsi andare al suo flusso visivo, senza alcun bisogno di commenti. Comunque è ancora troppo presto per dirlo. Si tratta infatti di una storia tutta da scrivere e speriamo di darne conto prossimamente.

Vai allo Speciale Orson Welles.

Note
Il sito delle Giornate del Cinema Muto.
Il sito della National Film Preservation Foundation.
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