Aberdeen

Aberdeen

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Con Aberdeen il cineasta hongkonghese Pang Ho-cheung continua a narrare, attraverso le sue storie, il grande romanzo della città-stato. Al Far East 2014.

The Sound of Silence

Ognuno nasconde un segreto, e la famiglia di Wai-ching ne nasconde molti. Il marito la tradisce con una giovane infermiera, il fratello, sposato a una splendida modella, non sopporta che la loro figlioletta non sia bella, il padre organizza cerimonie funebri per espiare le colpe degli avi e cerca di far accettare ai figli la sua nuova compagna… [sinossi]

Gli amanti delle classificazioni e delle strette catalogazioni in generi e stili hanno ogni volta il loro bel daffare con il cinema di Pang Ho-cheung. Fin da quando esordì, più di un decennio or sono, con You Shoot, I Shoot, Pang ha dimostrato una personalità cinematografica a dir poco multiforme: negli anni appena successivi all’handover che riportò la città-stato sotto l’influenza economica e politica cinese, la produzione cinematografica di Hong Kong visse un inevitabile sbandamento, impossibilitata com’era a mantenere l’approccio che aveva caratterizzato l’industria locale anche a livello internazionale ma allo stesso tempo incapace di adattarsi alla ristrettezze e alle rigidità ideologiche di Pechino e dintorni.
Pang, al di là delle riserve che si possono muovere alle singole opere della sua oramai vasta filmografia (dodici lungometraggi diretti in appena tredici anni), non ha mai mostrato alcun dubbio sulla barricata da scegliere: anche nel suo film più “cinese”, la rom-com Love in the Buff – seguito dell’assai più convincente Love in a Puff, sempre diretto da Pang e tra i gioielli più luccicanti della commedia hongkonghese contemporanea – il cineasta quarantenne ha disseminato i germi del cinema classico del porto profumato.

Il suo cinema sembra voler comporre, tassello dopo tassello, un grande romanzo di Hong Kong, e la dimostrazione palese di ciò è rintracciabile proprio nella sua ultima fatica, Aberdeen, presentato nella serata d’apertura della sedicesima edizione del Far East Film Festival di Udine. Se a prima vista Aberdeen può apparire “solo” il racconto corale di una famiglia alle prese con traumi nascosti e una vita forse ben più insoddisfacente di quanto sperato, la realtà cela una visione come al solito amara, disillusa ma carica di profondo e sincero affetto nei confronti di una nazione microscopica e costretta a passare di dominio in dominio, sfruttata per la sua strategica posizione geografica. Una nazione a metà, epicentro di una delle cinematografie più esaltanti del secondo dopoguerra, eppure ancora oggi costretta a veder riaffiorare un rimosso doloroso (dal terreno di Hong Kong, in Aberdeen, riemerge solo una bomba della Seconda Guerra Mondiale; sulle spiagge brulle si arena una megattera, unico elemento in grado di unire l’intera popolazione nello sforzo di restituirla all’oceano), lo stesso con cui Wai-ching deve confrontarsi ogni giorno, tra un lavoro che la vede costretta a rievocare il passato coloniale, un marito che la tradisce – a sua insaputa – e una madre morta con la quale non ebbe al tempo l’occasione di rappacificarsi.

Ma non è solo Wai-ching a rappresentare la metafora evidente di un mondo in decadimento, alla ricerca disperata di se stesso e della propria assoluzione da peccati più o meno chiarificati: quel cartello stradale che indica “all destinations”, sotto il quale transita ogni giorno il marito fedifrago di Wai-ching, è l’emblema forse fin troppo evidente dello spaesamento in cui galleggia Hong Kong, terra in cui l’arcano e il post-moderno si intrecciano in maniera indissolubile (il padre dei protagonisti officia il tradizionale culto dei morti tenendo acceso il cellulare in tasca).
Pang ordisce per Aberdeen una trama complessa, in cui il racconto corale si sviluppa in maniera volutamente disarmonica, aprendo e chiudendo spiragli di narrazione come il soffietto di una fisarmonica: coadiuvato da un cast in forma smagliante, in cui primeggia il solito, monumentale, Eric Tsang, Pang ha la sola “colpa” (il virgolettato è quantomai d’obbligo) di scegliere verso la fine, la via più facile, facendo in modo che tutti i tasselli sparpagliati sul tavolo possano trovare una loro naturale collocazione.
Ma è un difetto che viene naturale perdonare, a fronte di un’operazione come al solito stratificata e coraggiosa ma in grado di non perdere mai di vista la propria essenza puramente popolare, tra donne e uomini alla ricerca della loro umanità e “mostri” innocui e da proteggere. In tal senso, la sequenza onirica in cui il camaleonte Greenie si trasforma in un kaiju, vale da sola il prezzo di qualsiasi biglietto.

Info
Il trailer di Aberdeen.
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