Black or White

Black or White

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Nelle intenzioni del regista Mike Binder, Black or White – presentato al Festival di Roma – è un film che vorrebbe essere contro i pregiudizi razziali, si fa fatica tuttavia a capirne il perché. Con Kevin Costner protagonista.

Tutti i colori del grigio?

Rimasto improvvisamente vedovo, l’avvocato Elliott Anderson rimane solo ad allevare la nipotina birazziale, Eloise. Ma la nonna paterna della bambina, Rowena, chiede che la bimba venga affidata alle cure del padre, Reggie, tossicodipendente, che aveva abbandonato la figlia, subito dopo la morte della madre, avvenuta per complicanze durante il parto. Ne scaturisce una battaglia per l’affidamento che fa riemergere vecchie convinzioni e pregiudizi a lungo rimasti sopiti… [sinossi]

Abbiamo un conflitto per l’affidamento di una bambina, da parte di due uomini soli. In gioco c’è il nonno, rimasto vedovo da poco, molto benestante, dalla villa elegantissima con piscina, bianco, e dall’altra il padre naturale, tossicodipendente, di colore, con precedenti penali. Ok, mescoliamo un po’ le carte in tavola e diamo qualche difetto anche al primo: Elliott è alcolizzato – ma in fondo deve anche superare il lutto per la moglie – è burbero e un po’ violento. Anche nel confronto tra le dipendenze il nonno può avere a disposizione bottiglie di whisky di marca, Reggie si fa invece di crack. Reggie non ha in effetti un buon curriculum: ha avuto una storia d’amore clandestina con la figlia di Elliott, che è morta per complicazioni del parto e sarebbe ancora viva se avesse chiesto aiuto ai genitori che avrebbero potuto proteggerla e assicurarle le cure migliori. Di più Reggie non ha mai voluto occuparsi della figlia, lasciandola ai nonni. Ma il punto chiave, su cui fa leva l’avvocato di Reggie, è che Elliott abbia dei pregiudizi razziali, probabilmente gli stessi che gli facevano non approvare la relazione della figlia. In fondo però certe sue uscite rientrano nel suo essere scorbutico e sempre sopra le righe per cui, noi come il giudice minorile, possiamo perdonarlo. Come giudicare allora questa affermazione urlata da Elliott, un Kevin Costner che vorrebbe replicare l’arringa del procuratore Garrison in JFK: “Non ho pregiudizi razziali, voglio solo che il tuo culo nero stia lontano da mia nipote!”? E subito dopo il suo avvocato si complimenta con lui: “Neanche un membro del Ku Klux Klan avrebbe fatto meglio”.

Se i personaggi si rinfacciano di essere dei cliché, il regista Mike Binder nel suo film Black or White – presentato alla nona edizione del Festival di Roma – fa molto poco per correggerli e la sfaccettatura che cerca di dare è solo in piccoli correttivi, vedi anche l’ambiente allegro e folk della famiglia di colore.
Quello che manca in Black or White è impostare un problema relativo al diritto o meno per un padre naturale di avere l’affidamento sui figli, anche quando questi è una pessima persona. E poi la visione del film è assolutamente sbilanciata e unilaterale, possiamo solo supporre quello che poteva essere stato il punto di vista della figlia morta, la sua storia d’amore portata avanti contro il volere dei genitori, la sua ribellione nei confronti di questi, il suo affrontare un parto anche senza la condizione medica agiata che le avrebbe garantito la famiglia.
Black or White non tiene mai aperta dialetticamente la questione, tant’è che la vicenda si conclude con il ‘ravvedimento’ di Reggie e la sua rinuncia a reclamare la figlia, riconoscendo che starebbe molto meglio con il nonno. E il buffo rimbrotto di Rowena a Elliott perché la smetta con l’alcol sancisce una risoluzione a tarallucci e vino. Grottesca, involontariamente, anche la scena della piscina in cui Elliott, rischiando di annegare, vede la figlia sott’acqua. Ma avrà voluto citare L’Atalante? Oibò!
Ma, per concludere, il limite di fondo di Black or White deriva probabilmente dal fatto che si ispira a una storia reale della vita del regista, che evidentemente non riesce a non rimanere di parte.

Info
Il sito del Festival Internazionale del Film di Roma.
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