Rabin, the Last Day

Rabin, the Last Day

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Amos Gitai affronta con coraggio e grande rigore estetico l’evento cruciale degli ultimi vent’anni della storia israeliana: l’omicidio di Yitzhak Rabin, avvenuto il 4 novembre del 1995. Rabin, the Last Day, in concorso a Venezia, è finora il più serio candidato al Leone d’Oro.

Sul ponte sventola bandiera bianca

La sera di sabato 4 novembre 1995 il primo ministro Yitzhak Rabin viene ucciso al termine di un grande comizio politico organizzato nel centro di Tel Aviv. Il suo assassino, arrestato sulla scena del crimine, è un ebreo ortodosso di 25 anni. [sinossi]

Un cineasta come Amos Gitai, pur venendo spesso ospitato nei concorsi dei maggiori festival internazionali, continua a soffrire di una sottovalutazione critica o, quantomeno, di un approccio superficiale che fa sì che il suo cinema finisca per essere considerato come un limitato e limitante unicum che ruota intorno all’esasperante reiterazione degli stessi temi. Probabilmente è così, perché è vero che vi è un solo grande magma da cui scaturisce l’immaginario di Gitai, quello dell’impossibilità di potersi identificare con il proprio paese, Israele, e il suo sentirsi, dunque, consustanzialmente sradicato da esso. Il punto è però che questo tema viene declinato sia secondo approcci molto diversi, scegliendo ad esempio ogni volta delle vicende simboliche che siano in grado di collegare la parte (i singoli personaggi) con il tutto (la riflessione sull’heimat), sia soprattutto con delle scelte stilistiche e con delle modalità espressive ogni volta spiazzanti. Basti pensare all’unico piano-sequenza di cui è composto Ana Arabia per capire che per Gitai la ricerca linguistico-formale va di pari passo con l’etica del racconto e con il suo ruolo di intellettuale all’interno della società. E una figura così nel cinema contemporaneo semplicemente non esiste, con l’eccezione di alcuni grandi vecchi, ormai appartati, come Jean-Luc Godard e Jean-Marie Straub.

Ecco che allora un film come Rabin, the Last Day – in concorso a Venezia 2015 – è perfettamente coerente con un modo di concepire il cinema non quale strumento di un generico “impegno civile”, quanto piuttosto come l’unico modo per “mettere in forma” le contraddizioni dell’umano e della Storia. Nel rievocare l’omicidio di Yitzhak Rabin, avvenuto il 4 novembre del 1995 per mano di un ebreo ultra-ortodosso, Gitai ci racconta infatti sì l’atto di autodafé di un popolo che ha scelto di consegnarsi alle destre e a ogni tipo di estremismo, ci racconta certo il fallimento disastroso del processo di pacificazione con i palestinesi e con tutto il mondo islamico, ma allo stesso tempo sceglie consapevolmente ed esplicitamente di utilizzare gli strumenti espressivi che sono propri di un certo modo di fare cinema: rigoroso e concettualmente anti-spettacolare.
La morte di Rabin del resto venne ripresa da un cineamatore, tanto che quelle immagini sono celebri quasi quanto quelle che documentarono l’assassinio di Kennedy; Gitai però sceglie di interrompere il filmato d’epoca proprio un attimo prima che avvenga lo sparo, proseguendo quindi – dopo alcuni secondi di rarefazione visiva e di spappolamento dell’immagine – con una esplicita ricostruzione fictionale. Siamo ad inizio film e già a partire da questo momento il regista di Kadosh mette le cose in chiaro: quel che andremo a vedere non sarà una estenuata rielaborazione del concetto della morte in diretta tipico della sovrana società dello spettacolo, quanto al contrario si tratterà di assistere a uno scavalcamento della superficie dell’immagine per andare a ragionare su quel che è nascosto, celato e rimosso.
Assistiamo così inizialmente alla ricostruzione dell’interrogatorio dell’operatore, dal quale trapelano i primi inquietanti lati oscuri della vicenda, si segue poi l’iter della commissione d’inchiesta, quindi l’incarceramento e i colloqui con l’assassino (l’ultra-ortodosso Ygal Amir), e ancora, le riunioni dei coloni, i loro deliri religiosi e – soprattutto – la condanna formale nei confronti di Rabin che viene fatta da alcuni rabbini (il Din Rodef, un capitolo della legge religiosa ebraica che prevede che nel caso in cui un ebreo metta in pericolo la vita di altri ebrei allora può essere ucciso in maniera preventiva). Tutte queste rielaborazioni non vengono però utilizzate da Gitai per sostenere la tesi di un complotto, quanto per ricostruire sia il cosiddetto spirito dell’epoca sia le premesse che portarono al tragico evento. Quel che allora emerge è uno sguardo volutamente anti-documentaristico e prettamente re-interpretativo, il cui obiettivo è quello di riflettere sul concetto di tradimento: la Patria tradita e forse mai esistita, lo Stato prematuramente ottenebrato dal fanatismo religioso, il parricidio dell’unico leader militare e politico israeliano che abbia saputo e voluto seguire fino in fondo il processo di pace (senza, purtroppo, poterlo portare a termine).

Certo, Gitai omette di parlarci del Rabin “guerriero”, quello che – in qualità di Capo di Stato Maggiore – aveva condotto Israele alla repentina vittoria nella guerra dei Sei Giorni. Se lo avesse fatto però sarebbe emerso tutt’altro film, ne sarebbe nato forse un biopic, cosa che certamente non è Rabin, the Last Day. Anzi, il Rabin che vediamo qui è un’icona, un simbolo, una statua che viene fatta cadere dal piedistallo, un condottiero che viene deposto, un Sansone che trascina con sé tutti i filistei. Rabin infatti rappresenta l’Israele che avrebbe potuto essere e che non è mai stato e che ormai non sarà più avendo scelto di consegnarsi a quel Benjamin Netanyahu evocato più volte nel corso del film (fu all’epoca il politico che contribuì più di tutti a montare una campagna di destabilizzazione nei confronti di Rabin, colpevole d’intendersela con Arafat), un Netanyahu di cui alla fine vediamo i manifesti elettorali campeggiare ad ogni angolo di strada. È lui ad aver vinto.
E, in questo finale, al tempo stesso speculare e opposto all’incipit – perché dalle strade piene di gente che manifestava a favore del processo di pace si passa a un desolante paesaggio urbano animato solamente dalla figura ricurva di uno dei commissari d’inchiesta – vien quasi voglia di fare un paragone azzardato, quello con il Noi credevamo di Mario Martone. Lì si partiva da un passato ormai lontano – il Risorgimento – ma lo si faceva per alludere alle sconfitte del presente, alla dissoluzione delle speranze repubblicane e di sinistra. Non molto diversamente accade qui, dove – dopo un intenso indagare claustrofobico – si esce a riveder lo sfacelo di un paese, la sua mutazione genetica. E sarebbe interessante poter confrontare il Lo Cascio che se ne va disgustato dal parlamento italiano – dove furoreggia Crispi/Zingaretti – con il finale di Rabin, the Last Day in cui a farla da padrone è Netanyahu. Del resto, forse non troppo diversamente, anche Gitai fa uso – come Martone – di un meccanismo espressivo di derivazione didattico-brechtiana, rielaborando dal canto suo le dinamiche dell’inchiesta televisiva là dove riunisce ad esempio più campi d’inchiesta in un unico piano-sequenza (come nei primi minuti), oppure quando fa uso di una frontalità di ripresa che rimanda al teatro, o ancora nello scegliere di mettere in scena dei personaggi privi di caratterizzazione psicologica.

Probabilmente mai prima d’ora Gitai aveva affrontato in maniera così diretta la storia del suo Paese, agendo su un simbolismo non più allusivo ma esplicito, eppure allo stesso tempo pieno di contraddizioni e complessità, per un film in cui si arriva anche a rileggere le dinamiche del legal thriller e che, nel momento in cui lambisce persino la fantapolitica, ci dice che non vi è e non vi sarà mai soluzione: non ci fu probabilmente nessun complotto nei confronti di Rabin, quanto piuttosto una confluenza di campagna diffamatoria ed ideologica, che ha finito per scarnificare la società israeliana.
Ciò detto, Rabin, the Last Day è finora l’unico serio candidato alla vittoria del Leone d’Oro qui a Venezia 2015, anche in considerazione del fatto che Sokurov – che pure con Francofonia ha realizzato un gran film, vicino a certe dinamiche godardiane – ha vinto nel 2011 con Faust.

Info
La scheda di Rabin, the Last Day sul sito della Biennale

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