La battaglia dei sessi

La battaglia dei sessi

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Escursione della coppia Jonathan Dayton/Valerie Faris nel genere sportivo, La battaglia dei sessi funziona laddove si concentra sul privato dei due contendenti, ma fallisce appena cerca di allargare il suo sguardo sul sessismo strisciante nell’America degli anni ’70.

Una battaglia senza Storia

Nel 1973, la campionessa di tennis Billie Jean King inizia una personale battaglia per ottenere, a parità di risultati, la stessa retribuzione dei colleghi maschi. Alla guida di un gruppo di tenniste ribelli, l’atleta accetta la sfida di Bobby Riggs, ex campione e ora incallito giocatore d’azzardo, rappresentante del più retrogrado maschilismo. Il match, trasmesso in tutto il mondo, passerà alla storia come “la battaglia dei sessi”… [sinossi]

Il racconto delle trasformazioni sociali della storia recente è passato spesso, nel cinema americano, attraverso il genere sportivo. Se si pensa a recenti esempi di excursus storici raccontati attraverso la biografia di iconici atleti (Race – Il colore della vittoria) o, tornando indietro nel tempo, alla ricostruzione di figure che hanno intessuto la loro immagine pubblica in battaglie tali da segnare un’epoca (l’indimenticato Alì di Micheal Mann, Hurricane – Il grido dell’innocenza di Norman Jewison, solo per fare due titoli) si può rintracciare un fil rouge che lega il racconto cinematografico (spesso intriso di epica) delle imprese sportive, a quello delle conquiste sociali che tumultuosamente (e a volte inaspettatamente) finiscono per incarnarsi nelle gesta di singole figure. Sorprende un po’, nel caso de La battaglia dei sessi, che a portare avanti tale filone siano due cineasti finora dediti a racconti cinematografici su scala più piccola, a un approccio indie al materiale umano a loro disposizione (come in Little Miss Sunshine), al bozzetto intessuto di grottesco più che all’affresco tendente all’epica. La coppia Jonathan Dayton/Valerie Faris (compagni sul set e nella vita) amplia con quest’opera terza le proprie ambizioni, immergendosi direttamente, attraverso il resoconto di un evento sportivo e mediatico, in un pezzo (neanche tanto piccolo) di Storia.

Malgrado le ambizioni, malgrado la presenza di due star che si contendono la ribalta (una Emma Stone ancora fresca di Academy per La La Land, e un istrionico Steve Carell), malgrado un commento sonoro forzosamente enfatico (e a volte invadente), le parti più riuscite de La battaglia dei sessi sono proprio quelle più intime e improntate ai toni da commedia; quelle, cioè, in cui è il quotidiano dei due personaggi ad essere messo sotto la luce dei riflettori e costantemente giustapposto. In questo, la Stone conferma un’ottima versatilità attoriale, aderendo in modo quasi mimetico (complice una buona somiglianza fisica) al personaggio di Billie Jean King; mentre Carell carica nella giusta misura di toni grotteschi la stagionata figura dell’ex tennista Bobby Riggs, rappresentante volutamente poco credibile di una predominanza maschile descritta nel film come già fuori tempo massimo.

Ma è proprio laddove la sceneggiatura di Simon Beaufoy (scriptwriter di fiducia di Danny Boyle, qui tra i produttori) sceglie di allargare lo sguardo, puntando a fare una radiografia più complessiva degli anni ’70 americani, e a raccontare una difficile e contraddittoria fase di passaggio, che il film mostra invero tutti i suoi limiti. Lo script, quando sposta il suo focus sul portato “sociale” del soggetto, sceglie di percorrere la via più sicura (e risaputa) per raccontare lo scontro culturale che il match incarna. Le malefatte della federazione tennistica contrapposte all’eroica resistenza (e al molto americano spirito di iniziativa) delle giovani atlete ribelli, la grettezza del Jack Kramer col volto di Bill Pullman, il carattere di spartiacque di un evento che, tracimando dal mero ambito sportivo, avrebbe influenzato in modo decisivo il costume: tutto è semplificato, schematico, incasellato in una struttura (ivi compresa la parte della crisi della protagonista) già ampiamente sperimentata.

Poco avvezzi alla dimensione collettiva e ai registri del racconto epico/sportivo, in evidente disagio nella ricostruzione di un percorso che pare procedere a tappe forzate (quello verso il match, e verso uno showdown di cui sono ampiamente noti gli esiti), i due registi si rifugiano nella dimensione del bozzetto quotidiano e nel suo conseguente stravolgimento: offrendo, con ciò, frammenti di buon cinema, che tuttavia sembrano galleggiare in un contenitore gravato da eccessiva convenzionalità. La simpatica cialtroneria del personaggio interpretato da Carell, contrapposta alla quasi calvinista (e presto minacciata) dedizione della King, occhiali e volto obliquo e penetrante, funzionano laddove il “contorno” resta circoscritto ai personaggi a loro più immediatamente prossimi. Proprio a tale proposito, risulta decisamente funzionale (ma anche irrisolta) la love story della donna con la parrucchiera col volto di Andrea Riseborough, messa in scena con un uso intelligente e parco dei primi piani e dello score musicale (qui decisamente meno ridondante), nonché aiutata da una buona chimica tra le due interpreti.

Per tutto il resto della sua durata (e nella sua ossatura stessa) La battaglia dei sessi offre esattamente ciò che ci si aspetta, facendo il minimo sforzo per portare sullo schermo il materiale (umano, sociale, sportivo) a sua disposizione. Un lungo climax tutto proiettato verso il catartico (ma risaputo) momento del match, quest’ultimo ben montato e messo in scena a dispetto del suo reale, ben poco combattuto sviluppo (la King stravinse il confronto con un Riggs imbolsito e mai realmente in gara). La “battaglia” del titolo, quella giocata sul rettangolo di gioco, è vinta dal personaggio della Stone in modo fin troppo facile; mentre è la sua proiezione al di fuori del ristretto recinto dell’evento sportivo, nel cuore e nei nervi scoperti di una società statunitense ancora intrisa di un sessismo strisciante (e sempre più invisibile), che il film non riesce a rendere in modo convincente. Le sue isolate, buone intuizioni, restano soffocate da una struttura che finisce per depotenziarle, nascondendole negli schematismi di una “favola” sportiva e sociale dall’approccio fin troppo convenzionale.

Info
Il trailer de La battaglia dei sessi.
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