Gifted – Il dono del talento

Gifted – Il dono del talento

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Marc Webb con Gifted – Il dono del talento racconta il classico mito del ‘piccolo genio’ inquadrandolo in una prospettiva diversa: e se fosse necessario prima forgiare l’individuo, e solo dopo riconoscerne il talento? Peccato che questa intuizione non regga l’intera architettura del film…

Il mio piccolo genio

La storia di Gifted comincia in una cittadina nei pressi di Tampa, in Florida, dove la piccola Mary Adler cresce sotto le cure non convenzionali dello zio Frank, fratello della madre deceduta quando la bambina era ancora in fasce. A sette anni compiuti, Mary dimostra di possedere un talento naturale per i numeri e la matematica, e seppure debba ancora alzarsi sulle punte per scrivere le frazioni alla lavagna, riesce a risolvere da sola equazioni complesse di livello avanzato, destando l’interesse di preside e insegnanti. Non solo. La nonna materna Evelyn, colpita dal suo genio precoce, pretende per la nipote una formazione appropriata nel moderno Massachusetts, in ambiente accademico e con un team di insegnanti specializzati a disposizione. Mentre Frank, nonostante rischi di perdere l’affidamento, resta fedele alla promessa fatta alla sorella prima che morisse: garantire a sua figlia un’infanzia serena e spensierata, cadenzata dai compiti e dagli impegni della scuola pubblica e addolcita dai pomeriggi di gioco con i coetanei. I due modi diversi di immaginare il futuro della nipotina si scontreranno in una battaglia legale per l’affido, nella quale anche Mary sarà impaziente di dire la sua. [sinossi]

Il talento principale di Gifted – Il dono del talento risiede in un’idea che può passare in secondo piano – vista anche lo strabordare di emozioni volutamente troppo forti per non invadere lo schermo – e che invece si muove in netta controtendenza, soprattutto per quel che concerne la Mecca del cinema: in un mondo letteralmente invaso da spettacoli in cui viene messo in risalto il talento individuale, la capacità di primeggiare rispetto agli altri, e che con millimetrica precisione sceglie di creare un muro sempre più invalicabile tra chi è dotato e chi è normale, come se quest’ultima fosse una colpa, un marchio d’infamia da non esibire in giro, non è forse il caso di mettere il talento da parte, e pensare a forgiare uomini e donne in grado di sentirsi parte integrante del luogo cui appartengono? Non è forse meglio costruire una società egalitaria, per poi in un secondo momento permettere ai talenti – che hanno però assorbito un’etica e una morale che dovrebbero proteggerli dal vizio dell’autocelebrazione – di mostrare ciò di cui sono capaci, e che va al di sopra della media?
Un’idea che da sola vale, in fin dei conti, la visione di un film per il resto del tutto incapace di distaccarsi dalle proprie regole ferree: divertire, commuovere, far provare un (in)sano magone al proprio pubblico, e poi servire un lieto fine che in qualche modo metta i piedi in due staffe, rimanendo perfettamente in equilibrio. Il quarantatreenne Marc Webb dopotutto non è uno sprovveduto, come hanno dimostrato nel corso degli anni (500) giorni insieme, The Amazing Spider-Man (sul secondo volume è forse meglio stendere il classico velo pietoso) e anche il recente The Only Living Boy in New York, presentato in questi giorni alla Festa del Cinema di Roma.

La storia sviluppata in Gifted presenta tutti gli elementi in perfetto ordine: una bambina di intelligenza matematica completamente fuori dal comune, un trauma pregresso (il suicidio della madre, che le è tenuto nascosto, a sua volta genio matematico riconosciuto a livello mondiale), uno zio amorevole che ha abbandonato la carriera universitaria (docente di filosofia teoretica) per la promessa fatta alla sorella di occuparsi in modo sano della bambina, una nonna mefistofelica che vorrebbe crescere geni come fossero polli da allevamento, una causa legale che porterà tutti in tribunale, e via discorrendo su questa falsariga. Non è esagerato affermare che uno spettatore neanche troppo smaliziato possa essere in grado di anticipare quasi ogni singolo sviluppo narrativo, ed è in questa programmaticità che si inceppa il meccanismo architettato dallo sceneggiatore Tom Flynn (in pochi forse ricorderanno Watch It, da lui anche diretto nel 1993), e trasudante come già scritto gli umori più evidenti.
Nulla evade dallo standard, nulla di eleva al di sopra di una mediocrità che viene mascherata solo dalla vivace presenza scenica della piccola Mckenna Grace, un vero fulmine a ciel sereno – ma la bambina è ben più grande del personaggio che interpreta sullo schermo, dettaglio non secondario. Si resta dunque con l’impressione di un’opera studiata in provetta, così normalizzata da disperdere anche quel potenziale grammo di sguardo politico cui si faceva cenno in apertura di recensione: perché continuare ad allevare una classe dirigente completamente staccata dalla società civile, e dal mondo reale? Interrogativo che resta sullo sfondo, sovrastato e annichilito da quintali di melassa, lacrime, abbracci e gattoni con un occhio solo. Peccato, vien da dire…

Info
Il trailer di Gifted – Il dono del talento.
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