Intervista a Bernardo Bertolucci
Il ritorno in sala di Ultimo tango a Parigi nella versione restaurata in digitale grazie alla Cineteca Nazionale permette di tornare a ragionare su un film che colpì in profondità l’immaginario cinematografico italiano e internazionale. Abbiamo avuto l’opportunità di parlarne con Bernardo Bertolucci nella sua casa romana in compagnia di tre colleghi (Marianna Cappi, Mauro Donzelli e Gabriele Niola), tra innumerevoli dvd, uno splendido gatto e anche un poster sbiadito di Stalin…
Quali emozioni ha provato nel vedere il restauro del film?
Bernardo Bertolucci: Poco prima di Natale ho visto il controllo del restauro che stava facendo Vittorio Storaro, ed è stato davvero emozionante vedere che il film teneva. Mi sembrava che il film avesse ancora una sua potenzialità, una sua forza. Col tempo aveva guadagnato questa lieve patina, come dire, vintage.
Qualche anno fa lei disse che i suoi film che preferiva erano quelli che avevano avuto successo, e non c’è dubbio che Ultimo tango a Parigi rientri tra questi.
Bernardo Bertolucci: Fare quell’affermazione fu un modo per esprimere una mia debolezza. I film che sono andati “meno bene” li amo molto, ma li tengo anche un pochino a distanza. Mi ricordano delle ansie, delle malinconie e delle infelicità. Quelli che sono andati molto bene provocano un’emozione contraria. Quando Ultimo tango era fuori da un annetto io avevo un po’ sbarellato, nel senso che mi sentivo molto potente. Va però detto che senza il successo di Ultimo tango a Parigi non sarei mai riuscito a dirigere Novecento.
Come nacque il progetto di Ultimo tango a Parigi? Seguì una linea unica dall’ideazione all’arrivo in sala del film?
Bernardo Bertolucci: Non esiste ovviamente una linea unica. Bisogna abituarsi fin da piccoli a seguire una certa sincerità nel rapporto con la storia che si vuole raccontare. Questo film è nato da una fantasia erotica, che è poi quella del film, incontrare una donna mai vista prima in un appartamento deserto e iniziare un rapporto che si ripeterà sempre identico a se stesso. Come dice Brando: “No Names”, nessun nome qui, non sappiamo chi siamo e restiamo così. Questa era l’idea di partenza. Mi sono anche chiesto il perché di questa fantasia, forse perché è il modo di avere un’amante segreta senza sensi di colpa. È il modo per prevenire i sensi di colpa.
All’epoca di un’intervista di alcuni anni fa lei disse che era un film che avevano capito soltanto le donne, perché c’era stato questo grande entusiasmo nella critica americana di Pauline Kael…
Bernardo Bertolucci: Bè, lei fece la fortuna del film, almeno negli Stati Uniti. Pauline Kael era considerata come la Bibbia, e il fatto che lei paragonò la visione del film all’esperienza di essere a Mosca a sentire la prima della Sagra della Primavera fu senza dubbio importante.
Ma questo era più che altro un aggancio per chiederle del suo rapporto con la critica.
Bernardo Bertolucci: Dipende quale critica. Per esempio, il mio secondo film Prima della rivoluzione andò a Cannes nel 1964, ed ebbe da quasi tutti i quotidiani italiani una serie di stroncature pesanti. Lì avrei dovuto scegliere se mettermi a piangere o andare in giro su e giù per la Croisette a cercare di picchiare Aggeo Savioli o Grazzini che mi aveva detto “Il giovane Bertolucci torni a scuola, lo rivedremo a settembre” o qualcosa del genere. Per i francesi fu tutt’altra cosa. I Cahiers du cinéma, che era la rivista sulla quale mi ero formato, parlò positivamente del film, e infatti Prima della rivoluzione uscì a Parigi nell’inverno tra il 1967 e il 1968 e andò molto bene per un film d’essai. Forse esprimeva delle cose che poi sarebbero esplose nel maggio. La critica americana fu molto guidata da Kael, e via così. Fu l’Italia il paese in cui le cose furono problematiche, almeno fino a Il conformista dove incominciarono a dirsi che forse qualcosa c’era.
Muovendosi in equilibrio tra passione ed energia e precarietà, pensa che Ultimo tango a Parigi rappresenti bene quegli anni?
Bernardo Bertolucci: Era l’ombra lunga del 1968, “dopo la rivoluzione”. Trasgredire era molto importante. Avevo letto molto Georges Bataille, e i suoi libri profondamente erotici come L’azzurro del cielo o Mia madre. Avevo poi in mente quella fantasia che ho già citato. Inizia a scrivere da solo, poi chiesi una mano anche a mio fratello Giuseppe, e finalmente fu con Kim Arcalli, che era anche il montatore de Il conformista, che scrissi il film come lo avete visto, con quelli che poi saranno i cambiamenti che avrebbe fatto Brando sulle battute. È un momento fondamentale quello in cui i personaggi che hai scritto acquistano un viso, degli occhi, una carne. E il volto di Paul si porta dietro una disperazione esistenziale. Per quanto riguarda il riferimento al suo tempo è anche chiara la scelta generazionale: ci sono i due giovani e poi c’è Maria con quest’uomo. Io all’epoca avevo trentuno anni, e Brando mi sembrava centenario. Oggi lo vedo come un uomo di una bellezza rara, ma lo vedo come un giovane.
Com’era lavorare anche in fase di scrittura con Arcalli, che era per l’appunto un montatore?
Bernardo Bertolucci: Quando Kim era in fase di scrittura non pensava al film in termini di ritmo o di montaggio. Lavorava come uno sceneggiatore, anche se non ha mai scritto neanche una parola. Scrivevo io, che ero più abituato. Kim era un personaggio veramente extra-ordinario. A sedici anni, nel marzo del 1945, aveva partecipato a una cosa clamorosa a Venezia che passò alla storia come “La beffa del Goldoni”. Alla prima di un Pirandello al Teatro Goldoni [Vestire gli ignudi, N.d.R.] con tutto il governo di Salò e i nazisti in sala, entrarono quattro partigiani – tra cui Kim – con dei mitra, fermarono lo spettacolo, lessero un manifestino, lo tirarono sulla gente e dissero: “Il teatro è circondato. Il primo che mette il naso fuori è un uomo morto. Aspettate mezz’ora a uscire”. Dopodiché fuggirono e quando i presenti uscirono si resero conto che fuori non c’era nessuno. Dopo questo Kim, che era così giovane, fu mandato in montagna, e divenne presto il commissario politico di una Brigata Garibaldi. Molto precoce, eh?
Al contrario notava che fosse diverso avere nella fase di montaggio qualcuno che aveva lavorato sulla sceneggiatura?
Bernardo Bertolucci: No, perché lui senza fare nessuno sforzo si dimenticava di essere anche il montatore. Fino a quel momento avevo montato con Roberto Perpignani, un bravissimo montatore, ma eravamo troppo simili, e a un certo punto mi dissi che volevo un maggiore scontro, e montai Il conformista con Kim. Poi Perpignani diede una mano anche con Ultimo tango a Parigi. Una delle cose che più mi impressionavano di Arcalli quando era al tavolo da montaggio era che trattava la pellicola come un sarto fa con il tessuto, svolgendola metro per metro. Con le mani mi aveva fatto capire che nel materiale di un film ci sono cose che io ignoravo ci fossero. Era come andare in miniera e scoprire dei metalli preziosi che ci sono, ma che ti fa scoprire il montaggio. E questo era bello perché andava contro la mia idea, molto anni Sessanta, che ci fosse l’Autore con la a maiuscola, e che tutto fosse controllato da lui. Invece no, c’erano cose che io non potevo controllare completamente. Alla fine degli anni Sessanta ero arrivato a pensare che il montaggio era il luogo in cui teminava quel bel caos che c’è nei giornalieri che hanno il ciak e lo stop alla fine. Quasi un’operazione di polizia. Con Kim ho capito che quello era un vero momento creativo. I russi e Griffith lo sapevano ben prima di me, ma ognuno deve capire le cose con i propri tempi.
Un altro livello fondamentale di tessitura sono ovviamente le musiche di Gato Barbieri, e il lavoro che fanno in contrapposizione in qualche modo all’universo pop all’epoca dominante.
Bernardo Bertolucci: Tutto in qualche modo parte dal titolo del film. C’era questo titolo, Ultimo tango a Parigi, che mi piaceva molto. Lo citai una sera a cena a Goffredo Parise che mi disse “Questo è un bel titolo, bravo!”, e questa opinione mi rassicurò molto. Allora cominciai a ragionare sulla storia e sul protagonista. Come avrete letto andai prima da Belmondo e poi da Delon, che erano i due attori più importanti del momento. Belmondo mi disse che non faceva pornografia, e me ne andai molto con la coda tra le gambe. Delon in modo molto seduttivo mi disse che gli piaceva ma voleva produrlo; capii che non era aria, perché era un rischio troppo grosso avere il protagonista come produttore. Mi son trovato senza più nessuno e venne fuori il nome di Marlon Brando. Era una specie di leggenda, ma stava girando Il padrino. Finalmente riesco a incontrarlo a Parigi e vede Il conformista. Si alza e mi dice: “Dai, vieni a Los Angeles e facciamo un mese di lavoro sulla sceneggiatura e dopo lo giriamo”. Per me era assolutamente irresistibile. Lo portai a vedere questa mostra di Francis Bacon al Gran Palais a Parigi. Ci portai anche Storaro, e tutti i collaboratori più importanti. Bacon sapevo chi era, anche se non lo conoscevo benissimo, e avevo trovato nei suoi lavori l’immagine di quella disperazione che cercavo nel film. Tempo dopo Lorenza Trucchi, che era una critica d’arte, mi disse “Ah, Bacon è così felice che hai messo dei suoi quadri nel film”. E tanti anni dopo alla Tate Gallery ci fu anche lì una retrospettiva e mi presentarono Bacon; lui aveva un bicchiere di whiskey, vide che lo guardavo e mi disse “Ma com’è questo Bertolucci?”. Brando fu molto impressionato da Bacon, perché non lo conosceva per niente. Ma dov’ero rimasto?
Le musiche di Gato Barbieri…
Bernardo Bertolucci: Giusto, Gato. Mi resi conto che il titolo era un omaggio a Gato, che era un mio grandissimo amico. Un sassofonista che aveva suonato prima in Argentina, poi era venuto a Roma prima di trasferirsi a New York, e che mi sembrava avesse il suono, tra tutti i sassofonisti bianchi, più nero, non lontano da Coltrane. Gli chiesi di fare la musica del film e uscì questa melodia. Poi chiamammo Piazzolla dalla Fono Roma a Buenos Aires, perché facesse l’arrangiamento e ci disse “Io sono un musicista, non un arrangiatore”. Due o tre anni dopo, proprio qui dove siamo adesso, rispondo al citofono e una voce mi dice “Sono Piazzolla, cercavo Bertolucci. Ho fatto la più grande stupidaggine della mia vita, ho visto il film e mi dispiace molto di aver detto di no”. Mi portò un 45 giri in omaggio, e si intitolava El penultimo tango a Parigi.
Tornando su Francis Bacon, c’è proprio una corrispondenza di colori tra i suoi dipinti e il lavoro fotografico sul film.
Bernardo Bertolucci: Il colore della stanza in cui fanno l’amore la prima volta è molto ispirato ai suoi dipinti.
Il film è anche un racconto di solitudine…
Bernardo Bertolucci: Anche raddoppiata, quando sono in scena Brando e Girotti. Questi due belli un po’ vintage.
Di tutti i film che ha immaginato di fare e non è riuscito a portare a termine, qual è quello che le è dispiaciuto di più non riuscire a dirigere?
Bernardo Bertolucci: Ce ne sono due su cui avevo investito voglia e desiderio. Uno è Red Harvest, che si chiama Piombo e sangue in Italia, di Dashiell Hammett. E l’altro è L’albergo bianco di D.M. Thomas. Se non lo avete letto vi consiglio di leggerlo, anche se adesso non è forse più di moda. Di Red Harvest esistono anche due o tre sceneggiature scritte in quegli anni; c’è un cinquantacinquenne bolognese che ha deciso di laurearsi, è venuto a trovarmi perché fa la tesi sul film che non esiste. Mi ha portato anche una ricerca che ha fatto: Alberto Grimaldi aveva acquistato i diritti di Red Harvest ma per una clausola del contratto se non lo avesse portato a termine entro una certa data li avrebbe persi. Allora fece un western spagnolo che si chiamava con un altro titolo ma in inglese era Red Harvest, e credo sia il western più pecioso e pidocchioso di tutti i tempi. Questo mi fa venire anche in mente Ultimo tango a Zagarol, che ho lì sulla mensola in dvd ancora avvolto nel cellophane e non ho il coraggio di vedere perché temo che sia bellissimo.
Le dispiacerebbe se qualcuno facesse realmente un adattamento di Red Harvest?
Bernardo Bertolucci: Mi farebbe piacere ma devo ammettere che ho smesso di pensarci quando ho visto Crocevia della morte dei fratelli Coen. La storia era praticamente la stessa, che è poi quella di Per un pugno di dollari e che a sua volta viene da Yojimbo di Akira Kurosawa. Comunque il film dei Coen era bellissimo, e non aveva più senso a quel punto pensare a un adattamento dal romanzo.
All’interno di Ultimo tango a Parigi c’è la sottotrama che riguarda Jean-Pierre Léaud che sembra quasi il primo atto di storicizzazione della Nouvelle Vague. Però non c’è più l’idea ormai che il cinema possa salvare il mondo…
Bernardo Bertolucci: Quando ho rivisto il film la parte che mi è sembrata più debole era proprio quella che riguardava i due giovani. Forse perché l’ironia su un cinefilo era anche e soprattutto ironia su me stesso. C’è poi una cosa che credo di non aver mai detto. Ci sono due dialoghi delle interviste che Léaud fa a Maria (quello in cui lei è vestita da sposa e quello in cui le chiede di sposarlo) che feci scrivere a Moravia, perché volevo quel tipo di semplicità basata sulle idee. Matrimonio pop ecc. ecc. Gli raccontai il senso delle due sequenze, lui si mise al tavolo con una stilografica e dei fogli bianchi, e in un quarto d’ora aveva scritto sei o sette pagine di dialogo, di getto. Io ho una particolare debolezza per le contaminazioni e mi piaceva molto che Moravia collaborasse in questo modo. Che poi c’è di mezzo Barthes… Ma andiamo per ordine. Nel film Partner che non era andato bene e forse per questo amavo di meno, Tina Aumont vende dei detersivi porta a porta e ha degli occhi dipinti sulle palpebre (all’epoca ancora non sapevo che ci fosse anche in Cocteau) cita un testo di Roland Barthes sulla differenza tra il sapone e il detersivo. Barthes parla del piacere del testo quando il testo è contaminato, è l’insieme di tanti stili contraddittori. Parla di kamasutra del linguaggio. Non ho potuto resistere quando l’ho scoperto e ho inventato il termine “kamerasutra”. L’idea che i materiali possono compenetrarsi anche e soprattutto se molto diversi e trovare un’armonia mi piace ancora.
Visto che la citava all’inizio parlando del 1968, secondo lei esiste ancora oggi la trasgressione?
Bernardo Bertolucci: All’epoca era qualcosa nel vento, a cui non si poteva resistere. Era un atto politico. Adesso le cose sono un po’ diverse.
L’intervista è alla fine, ma notiamo un poster sbiadito con l’immagine di Stalin fare capolino in un angolo del salone. Bertolucci riprende la parola.
Bernardo Bertolucci: Mi sono ricordato che una volta andammo in barca nelle Cinque Terre, a Corniglia. Scendiamo e sul molo vedo un negozio con una insegna in ferro battuto. Un caravella e sotto scritto P.C.I. Allora entro, mi riconoscono (era ai tempi di Novecento) e mi dicono “dai compagno seguici”. Mi portano dietro in una specie di retrobottega, e c’era un armadio. Lo aprono e c’è quel ritratto di Stalin.