The Gentle Indifference of the World

The Gentle Indifference of the World

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Dolente, simbolico, pittorico ed esistenzialista, The Gentle Indifference of the World di Adilkhan Yerzhanov è la tenera indifferenza del mondo secondo Camus, è quell’inesorabile andare avanti delle cose anche di fronte alla morte, è quella dolce armonia impossibile di chi anche al culmine della disperazione rifiuta il nichilismo, continuando a vivere la propria umanità. Al 30esimo Trieste Film Festival.

Disegnando un volo verso Parigi

Dopo il suicidio del padre, Saltanat è costretta a lasciare la sua tranquilla vita in campagna per andare in città. Deve trovare i soldi per pagare il grosso debito rimasto alla famiglia e salvare così la madre dal carcere. Kuankyk, il suo leale e squattrinato ammiratore e amico d’infanzia, la segue per assicurarsi che la ragazza sia al sicuro. Lo zio di Saltanat la presenta a un possibile sposo che promette di ripagare i debiti della famiglia, ma le speranze di Saltanat svaniscono quando scopre che gli uomini di città non mantengono mai la parola data. Kuandyk cerca allora di aiutare Saltanat a ottenere il denaro in altri modi, ma finisce per causare ancora più problemi. [sinossi]
«Così vicina alla morte, la mamma doveva sentirsi liberata e pronta a rivivere tutto. Nessuno, nessuno aveva il diritto di piangere su di lei. E anch’io mi sentivo pronto a rivivere tutto. Come se quella grande ira mi avesse purgato dal male, liberato dalla speranza, davanti a quella notte carica di segni e di stelle, mi aprivo per la prima volta alla tenera indifferenza del mondo. Nel trovarlo così simile a me, finalmente così fraterno, ho sentito che ero stato felice, e che lo ero ancora. Perché tutto sia consumato, perché io sia meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che mi accolgano con grida d’odio»
Albert Camus, Lo straniero

È un film scritto sull’acqua, The Gentle Indifference of the World. È un film di vetri e di rifrazioni, di indefinitezze e di contrasti, di opacità e di distorsioni. È un film di lirici e soffocanti impressionismi, di esplicite suggestioni pittoriche, di simbolismi esistenziali e poetici, di luci cangianti che nel loro movimento squarciano di taglio l’oscurità, mentre le tenebre si allungano inesorabili e dolorose come la povertà, come la disperazione, come la morte. Come l’implacabile degradarsi della morale, in un supplizio che progressivamente nega ogni via di fuga.
La “tenera indifferenza del mondo” del titolo è quella dello scrittore Albert Camus, le cui parole vengono esplicitamente prese a prestito dal regista kazako Adilkhan Yerzhanov e dai suoi protagonisti per delineare quella sensazione quasi inspiegabile, paradossale e ricca di sfumature, di vita che può giungere solo nell’atto estremo del sacrificio, nell’accettazione ormai serena delle ingiustizie del mondo, nella fine di ogni illusione, di ogni speranza e di ogni angoscia, e quindi di ogni residua rabbia. Come in un’armonia arcana e indecifrabile, dove l’unica possibile utopia di resistenza mentre la vita mette alla prova è quella di tentare disperatamente di rimanere umani. Ma la “tenera indifferenza del mondo” è anche quella del corso delle cose, quella di chi resterà, quella di un quotidiano che continuerà ad andare avanti impassibile e inalterabile, e che di questa storia di dolore e di dramma dell’esistenza, parabola di purezza e d’amore schiacciata dall’impurità e dal disinteresse del mondo, forse nemmeno verrà mai a conoscenza. Perché è un’indifferenza, The Gentle Indifference of the World, che nasce e cresce da altre e meno nobili indifferenze, quelle di chi potrebbe aiutare ma sceglie deliberatamente di non farlo, quelle di chi pensa solo al proprio interesse, quelle di chi promette e mai mantiene, e nel frattempo illude, inganna, compra, vende e usa, trascinando inevitabilmente con sé nell’abiezione e nel tragico errore anche chi agisce a fin di bene, per altruismo, per amore, per disperazione, e ora nemmeno più riesce a guardarsi negli occhi nel crescere dei sensi di colpa senza che forse, in fondo, una vera “colpa” nemmeno ci sia. Ma l’amore, «l’unica cosa reale ed eterna», è troppo forte e sincero per non sopravvivere ai soprusi e ai conseguenti errori, e proprio quando tutto è perduto porterà a ritrovarsi, al riscatto, a una fuga impossibile, al sangue, alla pace.

Saltanat è giovane, è bella, è indipendente, è colta nella sua laurea in medicina e nei suoi libri; Kuankyk è rude, è fisico, è impulsivo, ma nei suoi disegni, nei suoi giochi coi bambini e nel suo cuore dolce e generoso nasconde anch’egli l’animo garbato di chi è da sempre silenziosamente innamorato. Una coppia impossibile, agli antipodi per carattere e per cultura, per maniere e per ceto sociale, tanto che Kuankyk mai ha trovato la forza per dichiararsi, mai l’ha sfiorata, ma non potrà mai nemmeno lasciarla sola. Da sempre le è sincero e fedele amico, le sta vicino, le parla, la ammira, e di nascosto legge i suoi libri quasi come per entrare nella sua vita, nel suo mondo, nella sua civiltà, e forse nel suo cuore. Sarà il suicidio per debiti del padre di Saltanat a spingere la giovane, nel tentativo di trovare i soldi per arginare il disonore, la lacerazione di una famiglia e l’arresto della madre co-obbligata al defunto marito, dalle campagne verso la grande e corrotta città, in cui uno zio che nemmeno conosce gioca al potente fra economia e criminalità. Kuankyk non potrà che seguirla in un goffo e amabile tentativo di proteggerla, e insieme si scopriranno, proprio come il Meursault immaginato da Camus, gli stranieri spinti verso la deriva da una realtà sociale ostile, soffocante, ipocrita, profondamente crudele. Dai sogni di un incanto bucolico alla perfida realtà di una cinica (in)umanità cittadina che presta orecchio solo alle ragioni del capitale, Saltanat e Kuankyk con la loro genuina trasparenza e con la loro ingenuità – naïf proprio come i quadri del Doganiere Rousseau che Yerzhanov lancia sullo schermo come ideale punteggiatura del racconto – si ritrovano a essere diversi, marginalizzati, sopraffatti da una collettività in cui una vita ha lo stesso valore di una firma infame o di una transazione economica, in cui le promesse e la fiducia non valgono più nulla e in cui, nella disperazione e nel continuo ricatto cui è sottoposto ogni indebitato, i contorni fra giusto e sbagliato si fanno inevitabilmente sempre più incerti e sfumati. Le circostanze li obbligheranno, troppo onesti per sopravvivere a un mondo così corrotto e spietato, ad adattarsi, a sbagliare e progressivamente a piegarsi, ma non potranno mai impedire loro di ritrovarsi e riemergere, nel fantastico e poeticissimo volo di un aeroplano di gesso verso Parigi e la sua arte figurativa, o più semplicemente in un tornare a guardarsi negli occhi, in un’ultima utopia, in un riuscire a tenersi per mano finalmente sereni. Disillusi ma mai disincantati, sconfitti ma mai realmente disposti alla resa, senza più alcun nichilismo, senza più alcun dolore, ma anzi pronti a uscire a testa alta e con profondissima umanità, con placido sorriso, con uno sconfinato affetto proteso oltre i bordi dell’infinito. Con la “tenera indifferenza del mondo” che è appunto onore ritrovato e catarsi, antidoto al dolore e nuova impossibile liberazione verso il sogno, verso la fantasia, verso il sentimento, verso due dita che si sfiorano per un solo sconfinato istante, finalmente libere dal male terreno.

Presentato nel concorso lungometraggi del 30esimo Trieste Film Festival dopo aver chiuso Un Certain Regard all’ultimo Festival di Cannes, il sorprendente The Gentle Indifference of the World è un film di vita e di morte, di strazio e d’amore, di sangue versato e di sentimenti puri ed eterni. Un film straordinariamente lirico e complesso, filosofico e umanissimo, stratificato e profondo come le sue suggestioni letterarie e figurative, cinematografiche e pittoriche, che dalle parole filosofiche ed esistenziali di Camus passano attraverso i quadri e i disegni per tendere al pudico candore di Takeshi Kitano, non certo per caso espressamente citato già nell’incipit con il sorriso dolente di Kuankik incoronato di fiori proprio come il Beat Takeshi di Boiling Point, e per tutto lo scorrere della vicenda inseguito fra violenze lasciate fuoricampo, scontri a fuoco dagli inaspettati ribaltamenti, dialoghi fissando il vuoto, spontanee ribellioni contro i potenti ed estremi atti finali di inusitata intensità lirica.
Ed è proprio qui, nel suo suggerire e rielaborare influenze e paralleli artistici, che l’opera sesta di Adilkhan Yerzhanov, détour di anime angosciate, tradite e costrette a tradire, vendute e costrette a vendersi, ghermite nella ferina spirale di un destino amaro e forse già scritto, trova nella sua brillante messa in scena un miracoloso punto di equilibrio poetico fra la fisicità e l’astrazione, fra il vestito rosso fuoco di Saltanat e le ferite di Kuankyk, fra le infinite steppe che si perdono abbacinanti e sovraesposte in fondo agli occhi e i claustrofobici interni di stanze scrostate, container e corridoi che si stagliano grigiastri e minacciosi a costringere e soffocare i corpi dei protagonisti nell’oscurità. Fra simmetrie e decentramenti, fra ombre e specchi, fra colori caldi e colori freddi, fra silhouette e sguardi accecati dal sole, fra veri criminali e falsi guerriglieri, i protagonisti vengono frodati, ingabbiati, messi all’angolo senza più apparenti alternative da continue carrellate di una lentezza quasi impercettibile eppure inesorabile. Quella stessa lentezza inesorabile della società disonesta e sleale che ripetutamente li illude, li forza e poi li lascia soli nello sconforto, con Saltanat costretta ad andarsene inutilmente via da Kuankyk e dal suo amore per essere in sostanza venduta e scambiata – due volte – come concubina fra false promesse di matrimonio e quelle, altrettanto false, di risoluzione della situazione debitoria che ha ereditato, mentre lui, coinvolto in litigi e in incendi, ricattato e abbandonato fra le lacrime, finirà ridotto a factotum di criminali, costretto nello shock di uno sparo inaspettato alle sue spalle a liberarsi del cadavere, e al contempo costretto anch’egli a tradire, a rinnegare, a incastrare l’unico amico e complice, padre di famiglia e onesto lavoratore da sempre vessato che nelle fiamme riflesse sulle lenti degli occhiali aveva solo cercato di vedere, per una volta, un barlume di giustizia. Ma anche un tradimento, quando perpetrato a forza da anime gentili e innocenti, sa rivelarsi nobile, benevolo, come un percorso tortuoso e doloroso, ma forse proprio per questo così tanto liberatorio, verso il sentimento, verso ciò che sopravviverà anche alla morte. Nel sorriso di figlia sordomuta che potrà aspettare il ritorno alla libertà dal carcere del padre in una casa finalmente finita, utopia impraticabile di una vita di lavoro, o in quello degli amanti che nel loro ultimo e impossibile appartenersi scoprono “la tenera indifferenza del mondo”, Saltanat e Kuankyk si consacrano l’uno nell’altro e diventano inafferrabile eternità, simbolo imperituro, «una bella giornata» destinata a concludersi, e proprio per questo a vivere per sempre. Insieme, da qualche parte, nell’infinito.

Info
La scheda di The Gentle Indifference of the World sul sito del Trieste Film Festival.
La scheda di The Gentle Indifference of the World sul sito del Festival di Cannes.
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