Far East 2019 – Presentazione
E sono ventuno. Il Far East 2019 svela il programma e si conferma figura centrale e in qualche modo totemica per tutti gli appassionati cultori dell’Estremo Oriente e del sud-est asiatico. Dal 26 aprile al 4 maggio, suddivisi tra il Teatro Nuovo Giovanni da Udine e il Visionario, verranno proiettati 76 film, di cui 51 in concorso.
Il Far East Film Festival di Udine soffia sulla torta con ventuno candeline. Un evento di non secondaria importanza e che ha del miracoloso se si torna con la mente agli esordi, quando sul finire degli anni Novanta la città friulana si trasformò nell’epicentro creativo e ricettivo di un insieme di culture. Partendo dalla Hong Kong in pieno handover per approdare in Giappone, Corea del Sud (e del Nord, in un’occasione), Cina, Taiwan; e poi ancora Thailandia, Filippine, Indonesia, Cambogia, Vietnam, Malaysia… Il Far East 2019 dunque non fa che confermare il ruolo centrale, quasi totemico sotto un certo punto di vista, assunto e svolto da una realtà festivaliera viva, in perenne movimento, mai bloccatasi sulle proprie convinzioni ma anche in grado di mantenere un’identità forte, quell’identità che spinge dopo oltre due decenni frotte di cultori della materia, appassionati cinefili e semplici curiosi ad attraversare l’Italia per raggiungere il suo limite orientale. Il far east, a ben vedere. Sempre sotto l’egida del Centro Espressioni Cinematografiche, e con lo sguardo attento di Sabrina Baracetti e Thomas Bertacche, che sono partiti da una rassegna sul cinema hongkonghese per iniziare una scalata laterale al sistema cinematografico nazionale, fino a fondare Tucker, casa di distribuzione e produzione che cerca – esattamente come il festival – di allargare la visuale. È affascinante che nel giorno in cui per la prima volta viene mostrata la ricostruzione fotografica di un buco nero sia stato presentato il programma di una kermesse che da ventuno edizioni si lancia senza protezioni in un buco nero dell’immaginario, per scoprirne la stupefacente molteplicità dei colori.
Il Far East 2019 si compone di 76 titoli in programmazione: 51 di questi si contenderanno il Gelso d’Oro, il premio assegnato dal pubblico votando attraverso cartoncini al termine di ogni singola proiezione. Dieci le nazioni rappresentate – rispetto all’anno scorso viene meno il Vietnam – con la parte del leone che come sempre spetta a Cina, Giappone, Hong Kong e Corea del Sud, che da sole mettono insieme 37 film in concorso, oltre il 72% dell’insieme. Il discorso si fa ulteriormente chiaro se si prendono in considerazione anche i titoli non in concorso, con il totale che diventa 54 su 76. Un’egemonia nei fatti che è figlia di una distanza produttiva ancora molto consistente: dispiace semmai che una nazione in grado di generare un forte immaginario come la Thailandia regali quest’anno solo due film in concorso – più il collettivo Ten Years Thailand, diretto da Aditya Assarat, Wisit Sasanatieng (il suo nuovo horror Reside è in concorso), Chulayarnon Siriphol e Apichatpong Weerasethakul – ma fa parte del “gioco”.
Di nomi cari al pubblico udinese ce ne sono molti, a partire dal già citato Sasanatieng: con lui Herman Yau (A home with a view), Pang Ho-cheung (Missbehavior), Fruit Chan (Three Husbands, già svelato nei giorni prima della conferenza), Hideki Takeuchi (Fly Me to the Saitama), Nobuhiro Yamashita (Hard-core), Sabu (Jam), Joyce Bernal (Miss Granny), Chito Roño (Signal Rock), Lee Hae-young (Believer).
Il Far East 2019 concentra la sua attenzione retrospettiva sul cinema sudcoreano, che festeggia i cento anni, e in particolare sugli “eversori” che diressero film durante gli anni della dura dittatura militare. Ne viene fuori uno spaccato produttivo su più decenni – gli otto titoli scelti spaziano dal 1964 al 1986 – che ospita al suo interno anche due giganti del cinema orientale, e non solo: Kim Ki-young, del quale viene presentato il mélo Promise of the Flesh, del 1975, e Im Kwon-taek, presente con due titoli (Jagko del 1980 e Ticket del 1986). Il centenario della produzione coreana viene omaggiato poi con tre titoli completamente indipendenti e contemporanei, girati tra il 2017 e il 2018.
Negli spazi che esulano dal concorso si possono notare un paio di anomalie. C’è un documentario italiano, per esempio, Yi dai yi lu – One Belt One Road, diretto da Pio D’Emilia – grande amico del festival e tra i non molti giornalisti italiani realmente esperti dell’area geografica e geopolitica in questione. C’è inoltre una micro-sezione, se così si può chiamarla, intitolata “The Odd Couples”, una sorta di double bill che mette l’uno a fianco all’altro un film orientale e uno occidentale che si parlano nei modi e nei tempi più diversi. In questo gioco di specchi riflessi si può trovare da un lato il dialogo a distanza tra Il mondo di Suzie Wong di Richard Quine e My Name Ain’t Suzie di Angie Chen, suo contraltare autoctono prodotto dalla Shaw Brothers nel 1985. Ma soprattutto si potrà godere – chissà se uno di seguito all’altro – di due straordinari titoli come City on Fire di Ringo Lam e Le iene di Quentin Tarantino, che dal film di Lam (scomparso solo pochi mesi fa) trasse più di un’ispirazione.