Intervista a Damien Manivel
Damien Manivel comincia la sua carriera artistica come danzatore, prima di passare al cinema. Dal 2014 ha realizzato quattro lungometraggi, Un jeune poète presentato a Locarno, Le Parc all’Acid di Cannes, Takara – La notte che ho nuotato, con Kohei Igarashi, a Venezia. Les enfants d’Isadora è stato selezionato al 72 Locarno Film Festival, dove ha vinto il Pardo per la migliore regia. Abbiamo incontrato Damien Manivel a Locarno.
Les enfants d’Isadora è stato realizzato con una coproduzione sudcoreana, collegata al Jeonju International Film Festival. Puoi raccontarmi com’è nato questo progetto?
Damien Manivel: Per molto tempo ho desiderato fare un film sulla danza. Ero un ballerino prima di mettermi a fare cinema, per cui ho sempre avuto questa idea di fare un film sulla danza, è qualcosa che sento molto vicino anche se non sapevo bene come realizzarlo. Nel mio film precedente ho cercato di inserire elementi della danza nei gesti della vita quotidiana, in modo da poter fare una ricerca a riguardo. Poi però mi sono ritrovato ad aver già realizzato tre film per cui a un certo punto ho pensato: «È ora di rischiare e realizzare una pellicola sulla danza, è il momento». Sono stato al Jeonju International Film Festival con il mio film Le Parc che ha vinto un premio; mi hanno detto che l’anno seguente avrebbero realizzato una competizione per finanziare nuovi progetti chiamata JCP, dicendomi, se avessi del materiale, di presentarlo. La mia prima reazione è stata: «No, non sono assolutamente bravo in queste cose, non scrivo molti copioni, non sono molto bravo a raccontare storie». È quello che credo. Ci ho ripensato più e più volte finché non ho realizzato che forse avrei dovuto provarci. Dopotutto riguardava la realizzazione di cinema indipendente che è proprio quello che faccio io. Per cui alla fine ci ho provato e ho vinto il premio, una bella somma di denaro, e grazie a questo ho iniziato il mio progetto. Tutto questo è successo a maggio, ho iniziato a scrivere a tra giugno e luglio per poi cominciare le riprese a ottobre. È stato tutto molto veloce grazie a questa coproduzione sudcoreana, sono riuscito a realizzare in modo indipendente il mio film.
Come mai hai deciso di focalizzarti proprio sulla coreografia Mother di Isadora Duncan?
Damien Manivel: Quando ho iniziato a lavorare alla pellicola ero intenzionato a collaborare con Agathe Bonitzer, una delle protagoniste, ma lei mi disse che aveva problemi a danzare, che non era in grado. Le ho detto che ci avremmo provato, che saremmo andati in studio e che avremmo lavorato insieme con un coreografo. Stavamo improvvisando, le ho detto di fare gesti molto lenti al che lei ha provato a farne uno: era sdraiata sul pavimento e ha alzato un braccio e in quel momento la mia coreografa francese mi ha detto: «Wow, sembra Mother di Isadora Duncan». Le ho chiesto cosa fosse e lei mi ha raccontato la storia, mi ha fatto sentire questa musica meravigliosa e ho pensato subito: «Questo è il film, questo è ciò di cui vorrei parlare, il modo in cui posso parlare della danza in modo personale e universale allo stesso tempo». Da quel momento ho cominciato ad avere queste idee sui corpi che “cantano”, sulla gestualità delle persone.
Quel gesto della danza, come a tenere in braccio un bambino, è la coreografia originale oppure una nuova creazione?
Damien Manivel: Questo pezzo di danza ha un centinaio di anni, è stato realizzato nel 1921. È tutto originale, non ho cambiato nulla, tutto è di Isadora Duncan. L’idea del film è di ridare vita alle movenze inventate da Isadora Duncan: donne di oggi che si muovono e danzano con quei passi.
Il film funziona con una sorta di shift tra i personaggi, come una staffetta nelle tre parti in cui è suddiviso. Un meccanismo che usavi anche in Le parc. Come l’hai concepito?
Damien Manivel: Per quanto mi riguarda sento una sorta di energia che si sprigiona da Isadora Duncan, che viene dal passato e attraversa tutti questi personaggi. Si parla di come questa gestualità venga trasmessa, di questa storia e queste emozioni che toccano ogni persona e più è così più queste si espandono senza limiti. Di questa danza non c’è nulla di Isadora Duncan che balla, non c’è fotografia, ma solo uno spartito. Per cui ho pensato: «Ho solo questo, devo cercare di capire cosa sono queste movenze, qual è la coreografia». I miei personaggi all’interno della pellicola cercano di fare lo stesso. Cercano di capire, di trasmettere il tutto e di aprire questa danza al mondo. Come i personaggi si muovono è lo stesso di come si muove il mio film. Non volevo realizzare un film corale, non volevo seguire un montage parallèle, volevo che si aiutassero tra di loro: il primo personaggio che dà energia al secondo e così via. Come se si trattasse di una comunità, è molto importante per me.
Da filmmaker ed ex-danzatore ti trovi a mettere in relazione il cinema con la danza. Scegli per esempio di non mostrare lo spettacolo di danza vero e proprio, il grande evento a lungo preparato che sarebbe il momento clou in un tradizionale film alla Scarpette rosse. Mostri solo il prima e il dopo, le prove e le emozioni suscitate in una spettatrice. Come mai?
Damien Manivel: È come fare delle bozze. Fare ricerca, riprendere l’idea della danza e le emozioni che la circondano. Il mio progetto è di fare un film utilizzando i mezzi che offre il cinema. La danza è nella mente e nel cuore del pubblico, non è davvero necessario che la faccia vedere. Si tratta di cinema e questo è legato a un diverso tipo di emozioni, ha un rapporto differente con la realtà. Mi piace vedere le persone e gli artisti al lavoro. Quando ci sono dei dialoghi si parla di prove, di danza… ci sono molti motivi e tutti riguardano cos’è l’arte e cos’è la danza.
Come mai utilizzi, in tutti i tuoi film, il desueto formato 1,33:1, il 4/3, e non l’anamorfico?
Damien Manivel: È vero che ho utilizzato questo formato per tutti i miei lavori precedenti, ma non vuol dire che farò sempre così. È qualcosa di molto intuitivo, per questo film c’erano molti primi piani soprattutto sui movimenti e i gesti, quindi mi sembrava il formato giusto da utilizzare. Sentivo una specie di collegamento con la terra e il cielo, come se il film si sviluppasse verticalmente, come i gesti…e avevo bisogno di sentire anche io la terra e il cielo.
Nell’ultima parte la donna di colore è come una nuova Isadora Duncan che ha perso un figlio. Il sentimento si trasmette, attraverso la danza, nella vita reale di questa persona, è come uno specchio rispetto alla grande danzatrice?
Damien Manivel: Certamente, ma è anche uno specchio con il pubblico. C’è una sequenza piuttosto lunga sui volti del pubblico e credo che sia un punto in cui la pellicola si sposta e gli spettatori capiscono che ora si tratta della loro storia, che non è più solo un’opera sulla danza ma che è anche loro e di chiunque altro. Che tu abbia perso un figlio o meno, c’è qualcosa che tocca il concetto di perdita e di mancanza, chiunque può sentirlo e comprenderlo. Come questa donna si muove, è semplicemente prendere quell’energia e quelle emozioni e portarle nella vita reale. Il suo modo di muoversi è come ballare, abbiamo visto così tante danze che c’è qualcosa di magico del tipo che qualsiasi cosa faccia, anche solo prendere un bicchiere d’acqua, diventa una danza.
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