Cane bianco
di Samuel Fuller
In un’epoca come quella attuale, particolarmente sensibile alla messa in scena e alla rappresentazione dei gruppi che non occupano gli scranni più elevati della piramide sociale è interessante tornare con la memoria cinefila a Cane bianco, forse il film più sfortunato della carriera di un outsider come Samuel Fuller. Un apologo antirazzista che venne accusato del suo esatto opposto, e per questo bandito dalle sale cinematografiche di mezzo mondo, con la sola eccezione di Francia e Gran Bretagna.
Cani e padroni di cani
La giovane attrice Julie Sawyer investe accidentalmente un pastore tedesco bianco che vagava per la strada. Sentendosi in colpa lo cura e lo adotta, nonostante le proteste del suo fidanzato. Il cane però non è docile come sembra, e attacca in maniera metodica solo persone afrodiscendenti. Sorpresa e spaventata Julie porta il cane da due addestratori, che hanno ricette opposte da proporre: uno vorrebbe direttamente sopprimerlo, l’altro vorrebbe curarlo. [sinossi]
Nonostante abbia diretto oltre venti lungometraggi nel corso di quarant’anni, per la stragrande maggioranza della popolazione cinefila l’apporto di Samuel Fuller allo sviluppo dell’industria – compresa quella “off” – statunitense si riduce di fatto a un pugno di titoli: tra questi spicca senza dubbio Il corridoio della paura, e trovano posto (forse) Corea in fiamme, La tortura della freccia, e Il grande uno rosso. In base a questo non deve certo stupire se un titolo come Cane bianco non venga citato con assiduità, anche se in questo caso c’è un peso ben maggiore che grava sul film. Cane bianco non è un film dimenticato, come si potrebbe affermare per – pescando a caso nella ricca filmografia – Ho ucciso Jesse il bandito, I figli della gloria, o Quattro bastardi per un posto all’inferno: si tratta di un’opera volutamente rimossa, cancellata, addirittura considerata pericolosa. A distanza di quasi quarant’anni dalla sua realizzazione, la storia del pastore tedesco investito dalla giovane attrice Julie Sawyer continua a essere vista con estrema diffidenza, impossibile da maneggiare senza sporcarsi le mani. E nel mondo del cinema è difficile trovare qualcuno che di buona lena decida che è giusto sporcarsi le mani.
Occorre forse un breve riassunto storico. Nell’autunno del 1970 esce in Francia per le edizioni Gallimard il romanzo Chien blanc, opera di Romaine Gary nel quale si narra una vicenda autobiografica, vissuta da Gary quando ancora era sposato con Jean Seberg: i due presero un cane in casa, per poi scoprire che il bestione era un cane della polizia dell’Alabama, e gli era stato insegnato ad attaccare gli uomini di colore su un fianco. Cercarono dunque di rieducarlo, affidandolo alle cure di un addestratore afrodiscendente, che però decise di invertire l’insegnamento ricevuto, spingendo il cane ad attaccare i bianchi. Dominato da uno stile grottesco e sarcastico (che si fa beffe tanto dei razzisti quanto dell’élite culturale che appoggiava i movimenti rivoluzionari afroamericani, come ad esempio Marlon Brando), il romanzo fu un enorme successo, sia in patria che negli Stati Uniti dove era stato edito da New American Library. Nel 1975 la Paramount Pictures acquisì i diritti del romanzo, e provò a convincere Roman Polanski a dirigerlo, senza successo. Non è forse casuale che la trasposizione sia entrata in pre-produzione solo a seguito del suicidio di Gary (nel frattempo era morta anche Jean Seberg, in un’occasione mai chiarita del tutto e che lascia molti dubbi su un’eventuale interferenza della CIA), avvenuto nel dicembre del 1980.
A Hollywood interessava l’idea di un cane allevato all’unico scopo di attaccare la popolazione black, ma non voleva che la vicenda fosse legata alla vera esperienza di Gary, o che si dovesse fare il nome di Seberg, il cui terribile lutto era ancora così fresco – il cadavere venne rinvenuto nell’agosto del 1979. A lavorare la sceneggiatura, che prendeva altre traiettorie rispetto al romanzo, furono lo stesso Fuller e Curtis Hanson, fino a quel momento autore di soli tre script (Le vergini di Dunwich di Daniel Haller, vagamente ispirato a L’orrore di Dunwich di H.P. Lovecraft, il suo esordio alla regia Sweet Kill e L’amico sconosciuto di Daryl Duke). I problemi si palesarono non appena il film venne terminato. La NAACP – National Association for the Advancement of Colored People – annunciò che avrebbe duramente boicottato il film, accusandolo di essere razzista. Questa presa di posizione, cui fecero seguito una lunga serie di adesioni alla causa, spinse la Paramount a chiudere il film a doppia chiave in un cassetto, cancellando la distribuzione su suolo statunitense. Al film non venne concesso di fare un tour festivaliero, e nessun paese al mondo si prese la briga di rischiare una distribuzione, con due sole eccezioni: la Francia e la Gran Bretagna. Negli Stati Uniti neanche i canali televisivi osarono programmare il film, sempre per la minaccia di un duro boicottaggio da parte di una componente sociale che stava diventando sempre più rilevante nel sistema consumistico nazionale. Solo con l’inizio degli anni Novanta, e per volontà ferrea del capo dell’archivio della Paramount Michael Schlesinger, il film trovò il modo di essere proiettato in sala, dapprima a New York – dove gli stessi critici che si erano ben guardati dal promuovere il film nel 1982 lo nominarono “film dell’anno”, e le sale si riempirono – e quindi in vari eventi sparsi sul territorio statunitense.
Sarebbe interessante riproporre oggi, in un nuovo clima di rivendicazioni – sovente doverose – da parte delle minoranze (che minoranze, dati statistici alla mano, non sono) un film come Cane bianco, perché si segnala come un perfetto paradigma per quel che concerne non il contenuto in senso stretto, ma la rappresentazione di una comunità, di un microcosmo, perfino di un’idea. Appare incredibile che qualcuno si sia potuto scagliare contro il film accusandolo di razzismo, quando è evidente in ogni singola scelta di Fuller – e di Hanson – la volontà di mettere alla berlina il pregiudizio razziale. Anche le forti modifiche nei confronti del romanzo si muovono in quella direzione: se per Gary l’addrestratore di colore, per di più musulmano, coglieva la palla al balzo per ribaltare il tutto e spingere il cagnolone ad attaccare i bianchi, il personaggio di Keys (che non ha connotazione religiosa) si adopera in ogni modo per diseducare il pastore tedesco, permettendogli di tornare a una vita “normale”. Abbandonato per strada il sarcasmo che domina le pagine del romanzo, Fuller introduce nella vicenda la sua pessimistica visione dell’umanità, e delle possibilità reali di un cambiamento. Il cane non può rinunciare, anche a fronte di un’empatia profonda con Keys, ad attaccare qualcuno, e non fa altro dunque che cambiare “ceppo etnico” di riferimento. In questa scelta, tutt’altro che scontata e di certo non di comodo – il romanzo termina con un lieto fine, che Fuller non può in alcuna misura accettare, né filosoficamente né tanto meno politicamente – si cela il discorso sull’odio come unica soluzione cui protende in una forma naturale l’essere umano. Nulla che l’anarchismo pessimista di Fuller non avesse enucleato già in precedenza, anche nei titoli più celebrati della sua filmografia – si pensi in tal senso alla ricostruzione della società statunitense nella bolla densa di psicopatia de Il corridoio della paura. Così come non è accomodante nelle scelte narrative, Fuller mantiene un rigore del tutto distante dalle derive contemporanee del cinema statunitense: colui che fu tra i principali numi tutelari del New American Cinema continua, settantenne, a rifiutare i dogmi, a fuggire dalla prassi, a non accettare il diktat industriale. Altra colpa impossibile da emendare. Quel che ne viene fuori è un film scorbutico, violento anche quando non mette in scena direttamente la violenza – c’è una furia latente che si cela in ogni inquadratura, in ogni movimento di macchina, in ogni stacco di montaggio –, mai incline al compromesso tanto verso l’industria quanto verso la borghesia benpensante.
Info
Cane bianco, il trailer.
- Genere: drammatico, thriller
- Titolo originale: White Dog
- Paese/Anno: USA | 1982
- Regia: Samuel Fuller
- Sceneggiatura: Curtis Hanson, Samuel Fuller
- Fotografia: Bruce Surtees
- Montaggio: Bernard Gribble
- Interpreti: Alex Brown, Bob Minor, Burl Ives, Buster, Christa Lang, Clifford A. Pellow, Dick Miller, Duke, Folsom, George Fisher, Glen Garner, Hans, Helen Siff, Hubert Wells, Jameson Parker, Jamie L. Crowe, Joe Hornok, Karl Lewis Miller, Karrie Emerson, Kristy McNichol, Lisette Kremer, Lynne Moody, Marshall Thompson, Martine Dawson, Neyle Morrow, Parley Baer, Paul Bartel, Paul Winfield, Richard Monahan, Robert Ritchie, Sam Laws, Samantha Fuller, Samuel Fuller, Son, Terrence Beasor, Tony Brubaker, Vernon Weddle
- Colonna sonora: Ennio Morricone
- Produzione: Paramount Pictures
- Durata: 90'