Il grande uno rosso – The Reconstruction

Il grande uno rosso – The Reconstruction

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Troppo facilmente accusato all’epoca della sua uscita di retorico patriottismo, Il grande uno rosso di Samuel Fuller restituisce senza filtri l’estrema violenza di una guerra, di ogni guerra, nei confronti dell’essere umano che la combatte.

Elogio dell’incompiuto

Durante la Seconda Guerra Mondiale, una piccola squadra composta da quattro soldati guidati dal loro sergente, passa dagli aridi paesaggi del Nord Africa allo sbarco in Normandia, per arrivare alla fine del conflitto nel campo di concentramento di Falkenau, in Cecoslovacchia… [sinossi]

Quando Samuel Fuller riuscì a ottenere il finanziamento per realizzare Il grande uno rosso era già il 1980 e sugli schermi statunitensi e internazionali furoreggiavano pellicole sul Vietnam, naturalmente avverse alla famigerata “guerra sporca”. Quello che dunque in realtà era un tributo – oltretutto a sfondo pacifista, come rivela la violenza esplicita delle sequenze di battaglia – del regista alla propria, durissima, giovinezza trascorsa sotto le armi durante la Seconda Guerra Mondiale, fu fin troppo facilmente confuso con un atto ideologico reazionario e patriottico, l’ultima occasione per esaltare il valore dei soldati in quella che di fatto è stata l’unica guerra “giusta” combattuta dagli americani.

Invece l’ideologia non c’entra quasi nulla nelle oltre 2 ore e mezza di sontuosa e roboante carneficina riportate alla luce in Il grande uno rosso – The Reconstruction, la versione restaurata e reintegrata di otto sequenze rispetto all’originale, presentata a Cannes, e poi al Torino Film Festival, nel 2004 e dal 2008 disponibile in DVD.
La narrazione de Il grande uno rosso prende le mosse già durante la Prima Guerra Mondiale, è qui che il sergente incarnato da Lee Marvin uccide un tedesco che, sebbene nella sua lingua madre, afferma però a viva voce la fine del conflitto. Poco più tardi, il sergente (il suo nome non viene volutamente mai menzionato) scoprirà che la guerra è davvero finita e, con una mostrina rossa tolta all’elmetto del crucco inutilmente assassinato, darà vita al simbolo del primo battaglione di fanteria dell’esercito americano: Il grande uno rosso cui fa riferimento il titolo del film. Siamo ora nella Seconda Guerra Mondiale e il sergente è a capo proprio del suddetto battaglione, composto di quattro giovani reclute: Griff (il Mark Hamill fresco reduce dai fasti del primo Guerre stellari) la cui mira infallibile viene messa in discussione da remore umanistiche, Zab (Robert Carradine), un aspirante scrittore che funge da alter ego del regista, Johnson (Kelly Ward) un allevatore che si rivela abile ostetrico e Vinci (Bobby Di Cicco) un italo-americano che parla un fluente siciliano. Il loro sarà un estenuante percorso che li vedrà prima sbarcare in Algeria, poi in Sicilia, affrontare il D-day, percorrere il Belgio, la Germania e infine approdare in un campo di concentramento in Cecoslovacchia.

Le immagini maestose e spettacolari firmate da Fuller aspirano dunque a restituire un affresco il più possibile completo delle operazioni belliche: si passa da un campo di battaglia all’altro, i proiettili fischiano sulle teste, mentre i boati, come un bordone costante, accompagnano la stanchezza fisica, le crisi emotive e la perenne paura della morte delle giovani reclute. Che sia prodotta dalle esplosioni o sollevata dalle raffiche di vento del deserto, la polvere invade ripetutamente lo schermo e quando tacciono le armi c’è sempre in sottofondo la radio, che assume un ruolo narrativo in accordo con la voice over dell’aspirante romanziere Zab (Carradine): il coinvolgimento audiovisivo è dunque totale e lo spettatore vibra sulla sua poltrona all’unisono con i colpi di mortaio. La costruzione corale dell’intreccio espone inoltre a una identificazione fluttuante, Fuller è molto abile nel tratteggiare appena i suoi personaggi per non far immedesimare appieno lo spettatore con nessuno di loro, la guerra d’altronde, strumento egualitario come pochi, assimila tutti attraverso una perpetua esposizione al rischio della vita. L’interscambiabilità delle facce e dei corpi dei “rimpiazzi” (i soldati mandati a sostituire i compagni deceduti) scandisce inoltre la durata di una campagna bellica che sembra non avere mai termine e pertanto, nonostante l’ingente durata del film, ci si ritrova, proprio come il sergente incarnato da Lee Marvin, colti alla sprovvista dalla firma dell’armistizio e sempre sul punto di superare quel confine, suggerito nell’incipit, tra “assassinare e uccidere” un nemico che magari già da qualche ora non è più tale.

Per nulla preoccupato di esporre un’opinione sul conflitto, Fuller mira a restituirci la precarietà della vita al fronte, attraverso una narrazione che, complici le vicende autobiografiche, non rinuncia a rendere conto dei sogni della giovinezza, che risultano per contrasto – e in questo viene alla luce il sostanziale pacifismo del film – amplificati di fronte alla flagranza dell’evento bellico e dunque alla possibilità della morte.
Privo di intellettualismo o simbologie Il grande uno rosso – The Reconstruction magari non ci dice esplicitamente quanto la guerra sia sbagliata, violenta e ingiusta, ma non ci risparmia brutalità, corpi mutilati, sangue e cadaveri, presentati con un intento scrupoloso e cronachistico che rende il film svincolato da ogni metafora, come anche dalla messa in scena di nemici astratti o fantasmi nazionali. Non è un film patriottico Il grande uno rosso è semplicemente un film sulla violenza della guerra, di ogni guerra, nei confronti dell’essere umano che la combatte.

La lunga e iper-violenta sequenza ad Omaha Beach, restaurata nella sua integrità, nella versione ora nota appunto come “The Recontruction”, precorre i tempi per i suoi toni “gore” e fa impallidire quel film che più di ogni altro gli ha reso omaggio, ovvero Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg. La durata dello sbarco è poi scandita dai dettagli ripetuti di un orologio che, seppur al polso di un soldato caduto, continua nella risacca rossa di sangue a segnalare il trascorrere delle ore. Un lungo carrello, ingiustamente tagliato nella versione breve del 1980, segue poi il percorso del soldato Zab che porta la notizia dell’apertura di un varco nella posizione del nemico. Zab attraversa la rena della spiaggia gremita dei corpi ammassati dei compagni e, una volta comunicata la notizia, molti di quei corpi si rialzano, pronti a farsi uccidere di nuovo pochi metri più avanti: la differenza tra i vivi e i morti, in fondo, è solo una questione di tempo. E il senso di precarietà della guerra è dunque più che mai lampante.

Sarebbe inutile e improduttivo giudicare retorici i momenti di smaccato lirismo che interrompono la violenza quasi morbosa della battaglia. Le ultime scene nel campo di concentramento cecoslovacco sono particolarmente toccanti e persino oniriche, come ad esempio quando il sergente passeggia romanticamente lungo un fiume con uno scheletrico bambino sopravvissuto, mentre li accompagna il suono di un carillon. Lì abbiamo il sentore di assistere quasi a un sogno dell’infante, una specie di ultimo desiderio di pace agreste, prima della morte.

Qualsiasi cosa costituisca una pausa all’infuriare della battaglia in Il grande uno rosso – The Reconstruction è di fatto un sollievo più che gradito per lo spettatore. Tra gli altri, spiccano siparietti melodrammatici come quello in cui una bambina siciliana adorna di fiori l’elmetto del sergente, per finire poi colpita dal cannone teutonico (anche quest’ultima scena era stata tagliata nella versione breve), oppure, la storia del bambino siculo che offre informazioni preziose agli americani, ma in cambio chiede una sepoltura di lusso per la madre morta, che trascina con sé in un carretto. D’altronde l’esatto opposto della crudezza delle scene di battaglia è proprio il melò più roboante, che acquista dopo tante efferatezze lo statuto di una realtà “possibile”. La guerra è dopotutto per sua natura stessa l’apoteosi della retorica e mettere a rischio la propria vita è un gesto già di per se epico, per cui, come viene più volte ripetuto nel corso del film: la vera gloria in guerra è, semplicemente, “sopravvivere”.

Per quanto Il grande uno rosso – The Reconstruction sia stato reintegrato di alcune sequenze, resta il sentore, nel corso della visione, che ci sia dell’altro da vedere. Per esempio quella scena ambientata in un castello con la contessa tedesca (interpretata dalla moglie del regista) prelude a storie torbide, di impianto quasi viscontiano, di un’aristocrazia decadente e corrotta, che però non vengono mostrate; e anche il personaggio antagonista del sergente tedesco (Sigfried Rauch) senza dubbio aveva all’origine, magari nella primigenia versione di più di 4 ore del film, maggiore spessore.
Ma in fondo questa “incompiutezza” amplifica il fascino già leggendario e il significato recondito di una pellicola che nel voler restituire il (non) senso di un conflitto, di fatto rinuncia a priori alla logica di un racconto compiuto e definitivo. Non c’è logica, né senso alcuno nella guerra.

Info
Il trailer de Il grande Uno Rosso – The Reconstruction.
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