Intervista a Nobuhiro Suwa

Intervista a Nobuhiro Suwa

Una filmografia scissa tra Giappone e Francia, quella di Nobuhiro Suwa, per il suo grande amore per la Nouvelle Vague, che si manifesta in H Story, tentativo impossibile di remake di Hiroshima mon amour. Francesi sono anche i successivi Un couple parfait, Place des Victoires, il suo segmento del film collettivo Paris, je t’aime, e Le lion est mort ce soir, in cui dirige Jean-Pierre Léaud. Con Voices in the Wind torna al Giappone con una storia legata al disastro di Fukushima. Abbiamo incontrato Nobuhiro Suwa durante la 70 Berlinale, dove Voices in the Wind è stato presentato nella sezione Generation.

Sono già stati fatti molti film sul disastro di Fukushima. Perché è importante farne uno ora, a distanza di anni dai fatti, quando il Giappone si appresta a celebrare i giochi olimpici?

Nobuhiro Suwa: Prima di tutto per quanto riguarda la domanda se il cinema giapponese deve continuare a realizzare film sul tema di Fukushima, non credo di essere in una posizione per rispondere e non saprei neanche cosa dire. Credo che nel fare un film, non solo su Fukushima ma sulle tragedie in generale, ci sia il grande rischio di compiere un peccato utilizzando questi avvenimenti per fare spettacolo. Trovo sia molto difficile evitare questo rischio perché è qualcosa insito nel sistema del cinema. Subito dopo il disastro credo che ci siano stati molti film su Fukushima e io stesso conosco molte persone che hanno una telecamera e che sentivano l’urgenza di andare a Fukushima, prendere la loro telecamera e riprendere quello che vedevano. Questo perché pensavano giustamente che se fossero andati sul posto avrebbero potuto riprendere qualcosa di mai visto prima. Si tratta di un desiderio che posso comprendere, ma allo stesso tempo io mi sentivo come se avessi qualche resistenza a bloccarmi. Oggi, a nove anni dal disastro, nella prefettura di Iwate, in quella di Fukushima e nelle altre zone colpite, non si vedono più le ferite inflitte dall’accaduto, ad esempio nel paesaggio. Le regioni sono state ricostruite, ci sono nuove case, tutto è cambiato per cui non ha più senso prendere la tua telecamera e andare lì a fare riprese. Le ferite sono scomparse, ma penso che sia proprio per questo motivo che c’è qualcosa che non può essere espresso facendo un film, qualcosa che non si può vedere semplicemente prendendo una camera e filmando quello che si vede. Anche questo è stato uno dei miei motivi. Non considero questo film proprio su Fukushima, è piuttosto un film su un individuo che ha vissuto una tragedia, che ha perso improvvisamente tutta la sua famiglia. Si tratta di qualcosa accaduto anche a Hiroshima, in altri paesi, durante guerre civili, ad esempio in Palestina. È l’esperienza di una persona che potrebbe essere in qualsiasi luogo e questo è l’approccio che ho utilizzato. Ci sarà un nuovo film ad alto budget, si intitola Fukushima 50, e riguarda gli eventi nella centrale nucleare, la principale di Fukushima. È stata utilizzata anche della computergrafica molto precisa ad esempio per mostrare lo tsunami. Mi sembra molto strano il fatto che a soli nove anni da questo enorme disastro ci sia questa commerciabilità e ci siano persone che andranno a vedere tutto ciò. Per quanto riguarda la concomitanza con le Olimpiadi, sento che c’è qualcosa di molto sbagliato nella situazione del Giappone. È successo qualcosa di grosso ma che non è ancora stato risolto e non è ancora del tutto passato. Eppure, anche se è invisibile agli occhi, è ancora dentro le persone e a me sembra che venga fatto dimenticare intenzionalmente. Ora l’attenzione è rivolta alle Olimpiadi ma allo stesso tempo ad esempio c’è stata anche una frana nella parte ovest del Giappone, lo mostro all’inizio del film, è avvenuta un anno prima dell’inizio delle riprese. Ma in un anno non è cambiato nulla, ci sono ancora i campi distrutti che non possono essere utilizzati, ci sono solo due macchinari per la ricostruzione in tutto quello spazio. Mi chiedo quanti anni siano necessari per ricostruire tutto se hai solo due macchinari a disposizione. Poi allo stesso tempo a Tokyo ci sono moltissime costruzioni in atto per le Olimpiadi, impiegano tutti gli operai per cui non ci sono né manodopera né denaro per la ricostruzione in altre aree. Credo che sia necessario rivalutare cosa deve essere fatto in questo momento in Giappone.

La protagonista del film si è trasferita da Ōtsuchi, fuggendo dalla devastazione del 2011, a Hiroshima, che è anche la tua città d’origine. Hai realizzato anche il film H Story che voleva essere un film su un impossibile remake di Hiroshima mom amour. Con questa ambientazione a Hiroshima hai voluto in qualche modo creare un legame tra i due cataclismi?

Nobuhiro Suwa: Credo che non si possano valutare Hiroshima e Fukushima allo stesso modo. Hiroshima è stata come Auschwitz, è stato qualcosa fatto dalle persone, intenzionalmente. Il grande quesito per l’umanità è come esprimere tutto ciò. Nel caso di Fukushima si è trattato di un disastro naturale. Ovviamente c’è il grande problema della radioattività comunque causato dal disastro naturale, ma c’è una differenza sostanziale tra Hiroshima e Fukushima che richiede un diverso approccio per la realizzazione di un film. Tuttavia, penso che la prospettiva degli individui su Hiroshima e Fukushima possa essere la stessa: una persona può essere sopravvissuta ma può aver perso la madre o i figli e in modo completamente casuale, solo perché una persona era in piedi e un’altra inginocchiata, quest’ultima è sopravvissuta mentre l’altra non ce l’ha fatta. Credo che ci siano molte persone che si sentono in colpa per essere sopravvissute, si tratta di una tragedia umana che non varia in questi casi.

Il titolo Voices in the Wind, Kaze no denwa in originale, contiene il concetto di vento, kaze, che è molto importante nella cultura giapponese, basti pensare al vento divino, kami kaze, che salvò il paese spazzando via la flotta dei mongoli e che poi è stato usato per i piloti suicidi della Seconda guerra mondiale.

Nobuhiro Suwa: La traduzione del titolo originale del film è Il telefono del vento, ma si tratta del nome originale che è stato dato a questa cabina telefonica che esiste davvero. Abbiamo scelto questo titolo ed è stato l’inizio di tutto. Allo stesso tempo, questa cabina telefonica non è connessa come una normale, ma c’è l’idea che il vento trasmetta i sentimenti e i pensieri delle persone che la usano ai loro cari che sono in paradiso. In questo senso si parla del vento che porta il messaggio alle altre persone e che ha un ruolo importante.

Si tratta della vera cabina telefonica quella che si vede nel film?

Nobuhiro Suwa: Sì, è quella originale, noi non abbiamo costruito nulla di nuovo per il film. In realtà ce n’era un’altra in precedenza ma è diventata vecchia e volevano ripararla, così ne hanno realizzata un’altra. Ecco perché appare così nuova nel film. Ma comunque si tratta di quella vera di quelle persone, non fabbricata per il film.

Si tratta di un telefono a cornetta, vintage e strano in una cabina. Ha comunque un aspetto surreale e poetico.

Nobuhiro Suwa: Credo di aver sentito dire che ci fosse un telefono all’interno di un centro commerciale. Doveva essere buttato via ma alla fine è stato messo lì su richiesta dei proprietari del luogo.

Voices in the Wind presenta alcune analogie con il primo hibakusha eiga, i film sulla bomba atomica, Children of Hiroshima di Kaneto Shindō, del 1952. In entrambi i casi protagonista è una giovane donna che si è trasferita dopo il disastro e che torna nei luoghi natali dopo qualche anno. Conosci quel film? C’è in qualche modo un riferimento o un omaggio?

Nobuhiro Suwa: Sì, ho visto il film quando ero bambino, tutti i bambini di Hiroshima lo hanno visto perché lo facevano vedere a scuola. Però da quella volta non l’ho più visto. Personalmente non c’è alcun riferimento a riguardo. La storia è stata concepita in questo modo. Anzitutto il progetto era già iniziato prima che venissi coinvolto ed era già stata ideata questa situazione della ragazza che viaggia per arrivare al telefono del vento. Questo era il punto di partenza quando mi sono aggiunto al progetto e da quel momento, insieme, abbiamo pensato a come realizzare la sceneggiatura. L’idea originale era quella della classica storia di tutti i disastri naturali che in Giappone hanno continuamente luogo. Come personaggio avevamo pensato a una ragazza del Kyūshū, che aveva perso il padre nel terremoto e voleva andare da sud a nord per parlare con lui attraverso questo telefono. Poi abbiamo fatto dei cambi e abbiamo deciso di rappresentare una ragazza che in realtà vive in una zona vicino al telefono del vento ma che a causa del disastro si era dovuta trasferire altrove e che poi invece decide di tornare nella sua città natale. È stato importante per me che ci fossero diversi livelli temporali per la ragazza che sta tornando nella sua città natia, in quel luogo pieno di ricordi perduti. Inoltre, c’è anche tutta la situazione in corso in quella zona, così abbiamo diversi livelli che rendono per me importante il suo ritorno.

Info
Il trailer giapponese di Voices in the Wind.

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