Il n’y aura plus de nuit

Il n’y aura plus de nuit

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Presentato in concorso alla alla 56a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, dopo il passaggio al Cinéma du réel dove gli è stata riconosciuta una menzione speciale, Il n’y aura plus de nuit di Éléonore Weber è un film costruito con le immagini degli obiettivi degli elicotteri militari francesi che dall’alto eliminano i sospetti guerriglieri in Afghanistan o Iraq. Un film che riesce a essere al contempo teorico e di denuncia.

L’occhio che uccide

La scena si svolge in aperta campagna, in montagna o sul tetto in un villaggio. In lontananza vediamo sagome umane, sufficientemente distinte nonostante la distanza. Uomini dall’aspetto spettrale iniziano a fuggire, presumiamo che sappiano di essere osservati. Ma il più delle volte coloro che vengono presi di mira non sono consapevoli di esserlo, non hanno visto da dove proviene la minaccia, quindi sembrano completamente disorientati. Queste immagini provengono da elicotteri. Siamo in Afghanistan, Iraq, Siria… Vediamo l’intervento in atto. [sinossi]

La guerra asimmetrica del XXI secolo è sempre stata intesa come il conflitto tra una nazione con un regolare esercito e un’entità che opera con azioni di terrorismo. Potremmo estendere il concetto di asimmetrico anche a quelle operazioni, esecuzioni extragiudiziali o in un teatro bellico, volte a eliminare i nemici mediante missili o mitragliatori scagliati da una posizione molto lontana, elicottero o drone, che le vittime non sono in grado di avvertire. Una strategia tecnologica messa in atto dalle forze militari americane, francesi, israeliane, con l’evidente vantaggio di uccidere i nemici senza il minimo rischio per la vita dei propri militari che si trovano nella posizione di chi vede, grazie a sofisticatissimi dispositivi, senza essere visto. Nel caso dei droni si tratta addirittura di piloti in smart working che manovrano comodamente su una poltrona in un altro continente. Questa guerra asimmetrica viene raccontata nel film Il n’y aura plus de nuit di Éléonore Weber, che propone un montaggio di questi filmati spia con teleobiettivo molto lontano, in bianco e nero con sovrimpressi la croce del bersaglio e una serie di scritte o numeri. La regista commenta le scene facendo spesso riferimento a un pilota anonimo, chiamato Pierre V., un militare profondamente convinto in realtà della liceità di quel tipo di operazioni, tant’è che Weber riferisce spesso anche delle sue divergenze di opinioni in merito.

Ci sono due linee su cui il film si appoggia, entrambe portate avanti con coerenza e senza che alcuna delle due sminuisca l’altra. Il primo livello è quello dell’opera di denuncia di un disequilibrio di forze, di quell’utopia della guerra chirurgica iniziata con la prima guerra del Golfo. Parliamo dell’esercito di quella nazione che dà alle proprie armi e ai propri mezzi militari, il bimotore Navajo, i missili Tomahawk, i nomi presi dai nativi americani, di tribù, di capitribù o di loro utensili, che hanno sterminato. Parliamo di una tecnologia molto sofisticata che pure non è precisa. Il film denuncia le tante vittime innocenti di queste operazioni tutt’altro che perfette, i giornalisti non riconosciuti come tali o i contadini afghani scambiati per combattenti per il loro badile che viene visto come un kalashnikov. Il grilletto facile dei cecchini dall’alto, tranquilli, che non rischiano se prendono un abbaglio, rimanendo impuniti, mentre le gerarchie militari si riservano di esaminare quei filmati registrati, che devono essere conservati per legge, nei giorni successivi con la massima comodità. Vediamo le vittime disorientate dai quei colpi da fuoco che gli piovono addosso senza capire da dove provengono, che scappano all’impazzata senza saper prendere una direzione precisa. Nessuno viene colpito all’istante, il mirino del visore non combacia in realtà con il punto in cui arriveranno i proiettili come sarebbe in un videogioco. Arrivano delle raffiche d’arma da fuoco a casaccio attorno alla vittima designata che, solo dopo vari tentativi, finiranno per abbatterla, prolungandone l’agonia. Una volta che hai cominciato a sparare, è difficile smettere, come sostiene Pierre V., l’anonimo pilota. Éléonore Weber ci mostra anche filmati di bambini che giocano, generando ansia, timore che si possa assistere a una successiva scena della loro uccisione.

La condanna morale è anche condanna metalinguistica, di quell’ambiguità delle immagini generate in realtà da potentissimi zoom, quella tecnica fotografica/cinematografica spesso definita quale la carrellata dei pigri. L’esercito americano, come quello francese, cercano ormai di evitare una guerra di carrellate, di gettarsi nella mischia, come nella guerra tradizionale dove il soldato poteva vedere da vicino il nemico, e sicuramente non confonderlo con un civile. Dalla prima guerra del golfo, i conflitti appaiono come dei war game comunque imperfetti perché il centro del mirino non combacia quasi mai con il punto di arrivo del proiettile come si diceva sopra. Il n’y aura plus de nuit fa un discorso sull’etica dello sguardo, sul potere della camera che è a tutti gli effetti un occhio che uccide. Chi filma è anche chi uccide o, forse meglio, chi uccide è anche chi filma. L’ironia della regista coinvolge la forma stessa del film. Il n’y aura plus de nuit è un film che parla del tentativo di estendere la visione a una distanza massima, dell’utopia di una visione totale, anche in quel finale con l’inversione dell’effetto notte o notte americana, una scena notturna perfettamente illuminata a giorno. Eppure è un film che rimanda a tanti fuori campo, o controcampi, che non si vedono, di cui non si sa nulla. Chi c’è dietro la macchina da presa? Non lo vediamo e conosciamo solo il nome del fantomatico Pierre V.: in questo senso il film ribalta la concezione di Good Kill di Andrew Niccol, incentrato proprio sull’altra parte, sui cecchini dei droni teleguidati, ciò che Éléonore Weber non mostra. Il n’y aura plus de nuit è un film di sguardi voyeuristici, di finestre sul cortile, di chi vede senza essere visto, delle vittime di un assassino che nemmeno possono fissarne il volto come ultima immagine sulla propria retina. E in chiusura, nel prefinale, Éléonore Weber mette il controcampo tanto agognato, fatto da dei bambini con il cellulare mentre, appena prima, alcuni brindavano verso la macchina da presa. Come alla fine di un film di guerra, l’eroe, tra virgolette, è tornato a casa, e su questo l’ironia/parodia della regista è impietosa.

Info
Il n’y aura plus de nuit sul sito della Mostra di Pesaro.

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