Intervista a Marat Sargsyan
Nato in Armenia, Marat Sargsyan inizia già a dodici anni a lavorare come operatore e montatore per l’emittente indipendente, Interkap TV, lavoro che farà anche dopo essere emigrato in Lituania, a Šiauliai, per una tv locale. Si trasferisce quindi a Vilnius ricoprendo l’incarico di direttore del montaggio per la Tango TV. Gira video musicali e cura un programma di cucina. Nel 2005 lascia la televisione per iscriversi alla facoltà di Teatro e Cinema dell’Accademia lituana di musica e teatro. Realizza il cortometraggio Lernavan (2009) come tesi di laurea. The Flood Won’t Come è la sua opera prima, selezionata in concorso alla 35a Settimana Internazionale della Critica. Abbiamo incontrato Marat Sargsyan a Venezia in questa occasione.
Il tema della guerra è trattato in The Flood Won’t Come in chiave allegorica. Ciò permette di trattare il tema astraendolo da qualsiasi specifico evento storico. Come sei arrivato a questa struttura?
Marat Sargsyan: Principalmente non volevo fare un film su una specifica guerra, ma piuttosto sul tema generale della guerra, e dell’umanità. Volevo parlare di come noi elaboriamo cosa sia la guerra partendo dai canali di informazione, che siano tv, YouTube o i giornali. Ma infatti che cos’è? Per chi la vive, come i soldati, è una cosa, mentre per noi, che ne siamo al di fuori, è qualcosa di completamente differente proprio perché molti canali di informazione ne parlano in maniera differente. La Russia parla della Siria e della guerra in Ucraina da un certo punto di vista, mentre i notiziari europei trattano l’argomento da un altro. Oppure ci sono paesi come la Corea del Sud che non ne parlano, per loro non c’è la guerra. In un film voglio fare esperimenti e comprendere cosa succede in guerra e come capiamo cosa sia effettivamente una guerra. A volte la guerra è solo una performance speciale per i notiziari. Ho scritto il copione del film anche con questa idea, ma quando ho cominciato la stesura del copione ho cercato di andare oltre, di ricostruire questi pensieri, quello che succede. Prendo eventi realmente accaduti, nel passato, nel presente, considero tutto quello che sta succedendo, ma anche eventi della mia infanzia come la guerra del Nagorno-Karabakh. In quel periodo ero solo un ragazzino di tredici anni, proprio all’inizio di quel conflitto in Armenia. Realizzo un mosaico con parti tratte da diverse storie, non voglio raccontare il tutto come una storia vera. Per me non è importante se si tratta di qualcosa di vero o no, è più importante quello che è alla base del film.
Per questo hai inserito quell’incipit con il riferimento alle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki?
Marat Sargsyan: Per me quello che è successo a Hiroshima, con la bomba e il fungo atomico, segna la linea di demarcazione da un prima a un dopo nell’evoluzione della guerra. Il significato delle vite umane era diverso tra prima e dopo Hiroshima. Voglio raccontare chi era questa signora, la guerra, prima e dopo l’atomica. Dopo che l’essere umano ha realizzato la bomba atomica, lui stesso è cambiato, è cambiato il potere nelle sue mani. Non dopo la costruzione ma proprio quando la bomba è stata lanciata. Da lì non saremo mai più gli stessi di prima. Questo uomo giapponese usato come una allegoria è anche una persona reale. Mi sono ispirato a un racconto di Tonino Guerra. La figura reale è quella di un giapponese che ha raccontato a Tonino della sua vita. Racconta del bellissimo fungo creato dalla bomba, dice che si stava rendendo conto che stesse succedendo qualcosa di brutto, come se presentisse la fine per tutti quanti. Ma quel fungo era la cosa più bella che avesse mai visto. La nostra fine è quindi così bella: è qualcosa di davvero grottesco. Ero alla ricerca di un posto che potesse dare quella sensazione, un posto bellissimo ma senza vita, dove tutto fosse morto. È quello che si vede all’inizio del film, per me è bellissimo ma è morto, nulla cresce lì. Un’allegoria di un luogo dopo che vi sia stata sganciata la bomba e questo giapponese, tutta questa gente, parla di questa bomba e di quello che è successo.
Nel film usi spesso dei long shot, dei punti di vista eccentrici, degli sguardi voyeuristici e delle visioni a infrarossi o dalle telecamere dei droni. Perché questo stile così eclettico?
Marat Sargsyan: Si tratta dello stile adatto all’idea del film. Tutte queste angolazioni diverse danno il senso dei tanti punti di vista sulla guerra. Non voglio nascondere la presenza della camera, voglio dare l’impressione che ci sia qualcuno che sta riprendendo, costantemente, come i media.
In questo senso anche quei momenti in cui l’inquadratura è ferma ma non è del tutto stabile, una macchina a mano che traballa lievemente?
Marat Sargsyan: Già all’inizio c’è il movimento di macchina e l’uomo giapponese aspetta, quando l’inquadratura arriva a lui, lui vede la camera e poi comincia a parlare. Mentre nell’ultima inquadratura vediamo quello che succede attraverso la televisione.
Quest’ultima scena pure è interessante perché il punto di vista è impossibile, un operatore televisivo non può stare in quella situazione e comunque non l’abbiamo visto nel controcampo della stessa scena mostrata verso l’inizio del film. Solo tu da regista, puoi permetterti quel punto di vista.
Marat Sargsyan: Per l’ultima scena volevo dire che quello che vediamo lo prendiamo come realtà, questo diventa la nostra realtà perché è la televisione. Ovviamente si tratta di finzione e ogni tanto credo che la guerra stessa sia una sorta di finzione con tantissimo sangue.
Alcune immagini del film sono come visioni nel buio rese possibili da mezzi tecnici militari come gli infrarossi, In una di queste scene compare un alce senziente. Puoi parlarmi di questa allegoria?
Marat Sargsyan: I militari, chi fa la guerra, non possono vedere la sostanza reale delle cose, quello che c’è davvero. Serve la termovisione e il colonnello può vedere solo usando questi occhiali che appunto si avvalgono della termovisione. Può così vedere la natura e il mondo in cui vivono. Se li toglie non è più vedere ciò. Voglio raccontarlo in questo modo, ecco perché ho avuto questa idea, perché ho ripreso questo alce. È enorme ed è il re della foresta. Anche i soldati potrebbero vedere un angelo ma solo con la termovisione, senza non possono perché sono delle macchine per uccidere e non capiscono quello che è reale.
Parliamo invece della scena in cui i prigionieri mimano un’impossibile, per loro, momento di cucina, con una pentola e tanti ingredienti. Quegli elementi a un certo punto vengono visualizzati ma poi si torna alla pura mimica. Mi sembra indicativo di quel continuo oscillare nel film tra realtà e stati onirici, incubi della guerra.
Marat Sargsyan: Uno dei livelli di tutta quella parte dei prigionieri è anche il nostro punto di vista creativo, perché è un punto di vista religioso. Si tratta di ricreare una sorta di religione, di misticismo, perché con il senso mistico ci crea una comfort zone, senza la vita sarebbe molto più dura. E riguarda proprio quando pian piano le persone non sanno cosa fare, non hanno nessuna altra via di fuga: ecco che si crea una sorta di felicità mistica e così le persone sono felici. Credo che un giorno i militari uccideranno anche questi misticismi. In questa mistica ho messo anche dell’arte, un’opera d’arte come l’Ultima Cena, che è arte mistica. Poi arriva l’angelo, un angelo militare. E credo così che davvero un giorno tutti i militari, tutte le guerre, uccideranno l’arte e il misticismo. È tutto un’allegoria, la mia allegoria.
In questo senso anche quelle discussioni filosofiche dei prigionieri, sul male, sull’esistenza di Dio?
Marat Sargsyan: Dalla discussione nasce l’arte, il misticismo, la religione e tutto il resto. Non posso dire di più sulla struttura e sull’idea del film. Ci sono molti livelli e non voglio aprirti ogni porta. Devi, dovete scoprirle voi.