Quién sabe?

Quién sabe?

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Diretto da Damiano Damiani a partire da una sceneggiatura di Salvatore Laurani e Franco Solinas, Quién sabe? sfrutta l’ambientazione nel pieno della Rivoluzione Messicana e la cornice apparentemente western per edificare un discorso politico terzomondista, anticipando l’onda sessantottina e rivendicando una ferrea volontà antimperialista, che trova la sua naturale espressione nell’interpretazione di Gian Maria Volonté, militante del Partito Comunista, e Lou Castel, che nel 1969 aderirà a Servire il popolo.

Servire il popolo

Durante la rivoluzione messicana, allettato da un compenso di centomila pesos, il giovane americano Bill Tate accetta l’incarico di uccidere, per ordine degli agenti governativi, il generale Elias, capo dei rivoluzionari. Per raggiungere la sua vittima, Tate si aggrega a un gruppo di ex ribelli comandati da El Chuncho, che cerca di trarre profitto dalla rivoluzione assaltando i treni militari e le caserme per procurarsi armi che verranno vendute poi ad Elias. Bill ed El Chuncho, dopo varie peripezie, giungono finalmente al rifugio del generale Elias… [sinossi]
Non comprarti il pane con questo dinero,
hombre… compra dinamite! Dinamite!
El Chuncho, Quién sabe?

Nel 1966 il mondo già ribolliva, ma l’esplosione era ancora di là da venire. “Quién sabe?”, ripete El Chuncho a Bill Tate, il Gringo approdato in Messico per uccidere per conto del governo il capo dei rivoluzionari, prima di sparargli tre volte in petto. “Quién sabe?”, chi lo sa? Dovrai pur sapere perché mi spari, è l’unica cosa che il giovane statunitense sa dire al suo amico/nemico con la canna della pistola puntata contro il proprio petto, proprio mentre il treno che lo sta riportando a casa è sul punto di intraprendere il viaggio. Ma perché dovrebbe mai saperlo, El Chuncho, il motivo reale per cui sta per mettere fine alla vita di Tate? Perché mai dovrebbe esserci un motivo, un solo motivo, in grado di giustificare un atto riparatore, ma pur sempre di “giustizia”? Il finale di Quién sabe?, settimo lungometraggio diretto dall’allora quarantaquattrenne Damiano Damiani, si pone in dialettica aperta con il pubblico, proprio perché non sente la necessità di alcuna spiegazione. Nella sua forma ideologica pura, cristallina, priva di sovrastrutture, il film raggiunge la sua conclusione in modo del tutto naturale. È ovvio, e ancor più e ancor meglio giusto, che Tate non sopravviva alla sua scorribanda in territorio messicano. È giusto che a freddarlo sia El Chuncho, sul cui cuore ancora grava il senso di colpa per non aver fatto nulla per evitare il massacro della popolazione di un intero villaggio. È giusto, infine, che una volta compiuto l’omicidio, El Chuncho si rivolga al lustrascarpe che sta raccogliendo spiccioli da terra per raccomandargli di non comprare pane con quel denaro, ma semmai dinamite. Solo così facendo si potrà continuare a portare avanti la rivoluzione, a sconfiggere non solo il Tate della situazione ma il sistema che lo pretendeva lì, e l’ha assunto. Ecco dunque che quel “Quién sabe?” ribadito in più occasioni da El Chuncho assume un valore sardonico, trasformando l’incertezza della domanda in pura e semplice esclamazione apodittica, priva di possibile contraddittorio. Uno slogan rivoluzionario.

Ha voglia di rivoluzionare un po’ anche il cinema italiano, Damiani, e non è un caso se alla sceneggiatura lavorò anche Franco Solinas, che nel 1966 elaborò la scrittura anche del western La resa dei conti di Sergio Sollima e, in particolar modo, La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo. Perché l’intento di Quién sabe?, la sua più alta aspirazione, è quella di porsi come punto d’incontro tra le necessità spettacolari del cinema, il processo di intrattenimento dello spettatore, e la prospettiva di un orizzonte ideologico e politico verso il quale protendere. In più occasioni Damiani, scomparso oramai da sette anni, ebbe modo di sottolineare come dal suo punto di vista era completamente errato considerare Quién sabe? un western; rivendicava infatti che gli unici a poter in maniera compiuta realizzare western erano i nordamericani di matrice protestante, e che non bastasse di certo un deserto o un uomo a cavallo o un duello per realizzare un western. Un punto di vista comprensibile a maggior ragione se si prende in esame il motivo scatenante che sottende alla realizzazione del film: diversamente dalla “trilogia del dollaro” di Sergio Leone, Damiani in Quién sabe? non cerca in nessuna maniera di venire a patti con il genere, o di scendere a compromessi con dettami precostituiti dell’immagine, e del suo ruolo all’interno della narrazione. L’ambientazione, che di fatto precorrerà i tempi aprendo un sotto-filone nei meandri della produzione italiana (vi approderà lo stesso Leone un lustro più tardi realizzando Giù la testa), sposta il centro di gravità dal midwest e dai “territori selvaggi” dell’Ovest statunitense al deserto messicano, nel pieno della Rivoluzione che abbatterà dapprima Porfirio Díaz e quindi la struttura stessa dello Stato. Damiani sviluppa la narrazione nel cuore della cosiddetta “Guerra delle fazioni” che si concluderà solo nel 1920. Questa scelta di campo in effetti eradica subito il film dall’appartenenza al western, spingendo semmai ad apparentamenti con Viva Villa! di Jack Conway e Howard Hawks, e soprattutto Viva Zapata! di Elia Kazan e – non certo sotto il profilo estetico – ¡Que viva México! di Sergej M. Ėjzenštejn. Di fronte all’assertiva certezza dei suoi “colleghi”, con il ricorso al punto esclamativo, Damiani si concede un dubbio, un interrogativo rivolto in primis non ai personaggi in scena ma agli spettatori: siete pronti, ordunque, a non comprare pane ma dinamite? Chi lo sa?

Se non è casuale la scelta di affidarsi alle capacità di scrittura di Solinas, maggiormente significative sono le scelte di casting, a partire da Gian Maria Volonté, qui nelle vesti del Chuncho e già al lavoro con Leone: Volonté era un militante attivo del Partito Comunista Italiano, sarebbe stato successivamente anche eletto consigliere regionale del Lazio nelle liste del PCI – pur abbandonando l’incarico per la scarsa capacità di dialogare con l’apparato burocratico del partito. La dose si rincara poi con la presenza in scena di Lou Castel, fresco di successo a livello internazionale come protagonista de I pugni in tasca, lo sconvolgente esordio alla regia di Marco Bellocchio. Proprio Castel, intervistato da Alessandro Aniballi all’epoca della realizzazione del documentario biografico A pugni chiusi di Pierpaolo De Sanctis, sottolinea: «D’altronde c’è sempre il problema di sapere cosa fare tra un film e l’altro: avevo finito I pugni in tasca, vivevo a viale Marconi e stavo nel mio quotidiano. Poi ho incontrato la Cavani, e ho fatto Francesco d’Assisi. Sembrava un caso ma non lo era. Discendeva tutto dalla mia esperienza, dal vivere negli opposti. E i personaggi di I pugni in tasca e di Francesco erano effettivamente degli opposti. Non li sceglievo, era già il mio modo di vivere. Quello che allora era più importante era la vita quotidiana, l’esperienza, e poi ogni tanto mi capitava di fare un film. Dopo Francesco d’Assisi mi trovai a fare un western, Quién sabe? di Damiano Damiani. E ancora una volta era un personaggio negativo, come se mi trovassi a ripetere il personaggio negativo di Bellocchio; in questo caso si trattava di un killer americano politicizzato. Ed era importante che fosse politicizzato perché era fondamentale per me trovare la motivazione nel fare un personaggio. Fino al ’68 ho continuato a recitare così, secondo un’idea istintiva degli opposti». Nel 1969 Castel entrerà a far parte del gruppo maoista “Servire il popolo” (come lo stesso Bellocchio, d’altro canto), quasi a testimoniare la necessità di uscire dalla rappresentazione per agire, trasformare la rivoluzione “narrata” in rivoluzione effettiva, in mutazione diretta della realtà delle cose, dello status quo.

Quién sabe? riesce in un compiuto arduo, quello di trovare il punto di connessione tra il racconto d’avventura e la riflessione politica, con l’invettiva antimperialista – il personaggio di Tate raccoglie su di sé tutte le ombre dell’ingerenza statunitense nell’America Latina, diventando a un tempo del tutto collegato alla narrazione eppur metaforico: il suo assassinio raffigura la morte di un sistema di gestione geopolitica che ha caratterizzato la storia dal Novecento – che respira in ogni scelta di messa in scena, in ogni inquadratura, in ogni singola sequenza. L’approccio picaresco, che diverrà il tratto distintivo di questo genere nel genere (si pensi a Vamos a matar compañeros e Che c’entriamo noi con la rivoluzione? di Sergio Corbucci, Viva la muerte… tua! di Duccio Tessari, oltre al già citato Giù la testa) è qui presente ma dosato con estrema cura, e Damiani dirige un film non solo politico in ciò che mostra, ma anche e soprattutto nel modo in cui viene mostrato. La bufera proletaria mescola con sapienza il sacro e il profano, il marxismo e il cristianesimo, la teologia della rivoluzione e l’operaismo internazionalista, l’occidente pistolero e i peones che lavorano la terra e ne rivendicano la proprietà. Un risultato così raffinato non verrà più replicato con la medesima forza (e la mente vola a quell’incipit che in pochi istanti sa fondere la pittura di Francisco Goya e le esigenze neorealiste del finale di Roma città aperta – il popolo che assiste alla fucilazione), e Damiani dopotutto non avrà nessun interesse a rimestare in quei luoghi e in quei tempi. Una volta esploso il Sessantotto non sarà più necessario lavorar di metafora, ma bisognerà sporcarsi le mani con il contemporaneo. Damiani non esiterà: un regista prezioso, dimenticato troppo in fretta e ancora poco analizzato e studiato.

ps. Nel 2004 a Quién sabe? hanno dedicato un album i meneghini Bron Y Aur, altro lavoro che meriterebbe di essere ricordato maggiormente.

Info
Quién sabe?, il trailer.

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