Brotherhood

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Con Brotherhood Francesco Montagner racconta il passaggio dall’infanzia all’età adulta attraverso il racconto dei tre figli di Ibrahim Delić, musulmano radicalizzato assurto anche agli onori delle cronache. Si può davvero pensare di evadere dalla propria “educazione”? Pardo d’Oro Cineasti del Presente all’ultimo Festival di Locarno.

Nel nome del padre

Jabir, Usama e Useir sono tre giovani fratelli bosniaci, nati in una famiglia di pastori e cresciuti all’ombra del padre Ibrahim, un severo predicatore islamico radicale. Quando Ibrahim viene condannato a due anni di prigione per aver partecipato alla guerra e per terrorismo, i tre fratelli si ritrovano per la prima volta soli. [sinossi]

Ibrahim Delić è una figura di cui si è occupata anche la stampa nazionale alcuni anni or sono: musulmano radicalizzato fin dai primi anni Novanta con un ruolo di primo piano nella comunità salafita bosniaca, è stato tradotto in carcere con l’accusa di fare proseliti e di reclutare persone da inviare in Siria per combattere gli “infedeli” a fianco dell’esercito dell’autoproclamato Califfato. Predicatore dalla forte carica dottrinaria, Delić fa della divulgazione del Corano e delle parole del Profeta la sua principale missione, tesa all’insegnamento della morale. Ed è proprio quella la lezione che quotidianamente impartisce ai suoi tre figli, Jabir, Usama e Uzeir, nell’enclave salafita di Gornja Bočinja, il piccolo villaggio situato nel Cantone di Zenica-Doboj nel quale è ambientato Brotherhood. Per quanto Delić sia un personaggio romanzesco, degno sicuramente dell’attenzione di un film, Francesco Montagner sceglie per il suo esordio in solitaria alla regia (nel 2014 diresse insieme ad Alberto Girotto Animata resistenza, dedicato a Simone Massi) di spostare l’occhio altrove, e di concentrarsi non sulla quotidianità del predicatore invalido – cammina sulle stampelle a seguito di una ferita riportata durante la guerra – ma sui suoi tre figli. Figli indottrinati, ovviamente, ma che d’un tratto si ritrovano da soli. Soli, e dunque liberi. Liberi dal peso della parola, ma incatenati almeno in principio ai ruoli che il padre ha loro assegnato prima di essere portato in prigione: Jabir, essendo il più grande – nonché unico maggiorenne – dovrà occuparsi della gestione della casa, ma anche dei fratelli; Usama deve curarsi del gregge e fare in modo che si accresca; Uzeir deve preoccuparsi solo di andare bene a scuola, e di entrare sempre in maggiore confidenza con il testo coranico. Ma i figli sono ancora solo ragazzi, e non sanno gestirsi bene, né possono davvero occuparsi di altro che non sia connesso direttamente alla loro età: le pecore si smarriscono, Uzeir non ha alcun interesse nella scuola, e ancor meno nello studio del Corano. Jabir, ora che non c’è il padre a dettar legge, se ne va a vivere con la fidanzata abbandonando direttametne la casa, e ha come unico desiderio concreto quello di lasciare anche la Bosnia.

Montagner affronta questo studio documentario con un occhio non dimentico del concetto di “creazione”, e cerca nella storia di tre fratelli la risposta all’universale domanda sull’ansia di crescere, e sulle responsabilità che ciò comporta. Ne viene fuori un coming-of-age del reale che lavora molto sulla tessitura dell’immagine, perché la narrazione procede sistematicamente per ellissi, concentrandosi sull’ambiente, su singoli dialoghi. Come i suoi personaggi anche Montagner è alla ricerca dello sguardo, e della giusta distanza per giudicare davvero ciò che accade: pur rifuggendo qualsiasi tipo di didascalismo Brotherhood ha un impianto che in alcune occasioni pare costruito ad arte, quasi si stesse facendo riferimento a una sceneggiatura oliata fin nei minimi dettagli. La storia suggerisce un’ideale tripartizione allo spettatore: Ibrahim torna dalla Siria e viene arrestato; i figli, rimasti soli, cercano di eseguire i compiti che il genitore ha loro lasciato; i figli falliscono e dirazzano, abbandonando i doveri. A questa tripartizione che profuma di parabola, e in cui il padre assume i contorni della divinità – un atto che permette a Montagner anche di riflettere sull’obbligo inteso come fede indefessa verso qualcuno che viene ritenuto superiore –, si aggiunge il finale che vede l’uomo tornare a casa dalla prigione, scoprendo dunque il fallimento anche della sua opera di indottrinamento. Una struttura monolitica, quasi aprioristica nella sua potenza, che viene sostenuta anche dalla ieraticità dello sguardo del regista, che scandisce il tempo della narrazione attraverso le stagioni e fa sì che il territorio bosniaco diventi a sua volta protagonista della vicenda. Quello tra tradizione e innovazione, tra arcaismo e modernità – c’è il gregge da portare al pascolo, ma si sogna una notte in discoteca – è solo uno dei dilemmi dialettici che Montagner mette in pratica nel film.

L’individuo con le sue pulsioni e i suoi desideri da un lato e la comunità dall’altro, con le sue regole ferree. Il desiderio di emigrare contro l’attaccamento alle radici della terra. La soggiogazione e la ribellione. L’assenza di una figura che riesce a pesare persino più della sua stessa presenza, e dalla quale non c’è modo di evadere, né di trovare scampo. Montagner chiude il film lasciando lo spettatore all’oscuro di ciò che è successo ai tre ragazzi una volta che il predicatore è tornato a casa. Una scelta perfettamente in linea con il minimalismo – pur estremamente ricercato – che è il registro espressivo prediletto nel film, ma che ciononostante lascia privi di risposta alcuni dei quesiti sollevati da Brotherhood. Cos’è il passato, e quanto pesa? Si è in grado di trovare il proprio sguardo, si è in grado di ruotare la testa per non essere appiattiti sullo sguardo altrui? Interrogativi che sono anche quesiti sul cinema, e il suo ruolo, ma che Montagner lascia scivolare via, quasi fossero inessenziali.

Info
Brotherhood sul sito del Locarno Film Festival.

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