La paura

Sono molte le paure che trovano espressione nella quindicesima regia di Roberto Rossellini: la paura della fine della relazione con Ingrid Bergman, e della conclusione del sodalizio artistico; la paura di un cinema già fattosi industria, come si trattasse della ditta di prodotti farmaceutici che dirige la protagonista Irene; la paura di una nazione, la Germania, divisa a metà e che non sa fare i conti con il concetto di morale. Per molto tempo considerato uno degli esiti meno felici della filmografia rosselliniana, si tratta di un’opera complessa, dove persino il posticcio lieto fine acquista una luce sinistra, e ambigua.

Non credere più all’amore

Nella Monaco di Baviera dell’immediato dopoguerra Irene Wagner dirige una ditta che produce materiale farmaceutico. Sposata e con due figli, Irene intrattiene una relazione extraconiugale con Enrico. Un giorno la donna viene avvicinata da Giovanna, che la informa di essere la fidanzata di Enrico e di essere disperata: si tratta però della prima di una serie di richieste di denaro, sempre più pressanti. Nell’animo di Irene inizia a crescere l’angoscia. [sinossi]

In un’epoca in cui il timore dello svelamento di dettagli della trama di un film è diventata una vera e propria ossessione, nonché una sorta di crociata, sarà considerato eretico e forse perfino degno di gogna aprire un articolo dedicato a La paura di Roberto Rossellini concentrando l’attenzione proprio sulla sequenza che precede la scritta «Fine». Eppure, nonostante l’ira funesta di chi ancora non avesse avuto modo di godere della visione del film – e che può con ogni legittimità smettere di leggere qui: va pur detto che quasi settant’anni di distanza dalla sua realizzazione dovrebbero giustificare qualsiasi tipologia di analisi – appare indispensabile porre l’accento proprio sul finale, sia per i significati e i livelli di lettura che innesca, sia perché si tratta da un punto di vista post-produttivo dell’ultimo momento in cui Ingrid Bergman si materializza all’interno di una messa in scena ordita da Roberto Rossellini. Il sodalizio artistico e umano nato sull’orlo del vulcano stromboli muore a Monaco di Baviera, in una Germania già separata. Parla di separazione, di tradimento, di superamento della morale anche La paura, dopotutto, come se la forza vitale della lava, così ancestrale ed eterna, nulla potesse contro l’incedere dell’oggi, del tempo-macchina, dell’industria. Se si può ipotizzare come non sia stato facile concludere la lavorazione del film, a causa della frattura sentimentale fra i due artisti, ancor più complesso è stato portare a termine il montaggio, a sua volta scisso in due parti: del film esistono infatti sia una versione italiana, su cui lavorò Jolanda Benvenuti – fedele sodale di Rossellini da Roma città aperta, dove pure non fu accreditata, fino Il messia – e che fu girata in inglese, sia una tedesca. Non bastasse questo frazionamento, ecco aggiungersene un altro: visto che i risultati al botteghino furono considerati molto insoddisfacenti tre anni dopo l’uscita venne riproposto al pubblico un nuovo montaggio (mai riconosciuto da Rossellini e frutto delle scelte di Minerva, che deteneva i diritti di sfruttamento), che partiva dal materiale girato in inglese ma arrivava a una conclusione del tutto diversa. Ed ecco dunque perché non si può fare a meno di ripartire dalla «Fine».

La versione disapprovata dal regista vede una disillusa Irene Wagner confidare a Martha, la governante, la sua volontà di continuare a vivere senza un marito, dedicandosi ai due figli, come donna emancipata che non ha più bisogno dell’amore. Per quanto possa apparire come una scelta narrativa fortemente progressista, e quindi idealmente in linea con il pensiero rosselliniano, questo finale posticcio – in tutti i sensi – smentisce completamente l’originale, che pure rimase lungamente incompreso, e che assume su di sé buona parte delle responsabilità del rapporto conflittuale che La paura ha sempre avuto con la critica e il pubblico, anche quello appassionato della filmografia del regista. Nel vero finale, quello che può in maniera legittima portare in calce la firma di Rossellini, Irene, sull’orlo del suicidio dopo aver scoperto che dietro il ricatto cui l’ha sottoposto la sedicente fidanzata del suo amante – in realtà una attrice desiderosa di farsi strada nel mondo dello spettacolo – c’è suo marito, fattosi vendicativo dopo aver scoperto il tradimento, si ricongiunge con il coniuge. Una conclusione che irritò, e mandò in confusione gli esegeti del cinema di Rossellini. Incomprensibile? Tutt’altro. Forse sarebbe opportuno ripartire dal titolo: La paura. Nel mantenere il titolo del racconto di Stefan Zweig Rossellini ne certifica l’inutilità a non elaborarlo, a non cercare di intesserlo con il mondo in cui si sta vivendo. Zweig scrisse la novella nel 1910, prima della catastrofe bellica, prima della crisi economica, prima della barbarie nazista. Rossellini non può permettersi questo lusso, e così il racconto della crisi di una coppia si trasforma inevitabilmente in altro. Cos’è, di fatto, la paura? Chi vive questo sentimento? È la paura di Irene di fronte al pressante ricatto economico di Giovanna/Luisa, o forse quello della donna di fronte alla scelta tra matrimonio e morte, o forse ancora la paura è quella di Alberto, il marito di Irene, così terrorizzato all’idea di perderla da ordine una macchinazione diabolica e machiavellica? Tutto può essere. Ma non è forse la paura a dominare lo scenario post-bellico di una Germania che si è trovata ricoperta di macerie e ora cerca di correre nel presente/futuro dimostrandosi perfetto marchingegno economico anche per gettare un velo sulla cicatrice del muro che attraversando Berlino la spezza a metà? Un luogo che Rossellini conosce bene, e dove torna a neanche dieci anni da Germania anno zero trovandolo diverso, ma solo di diversa disperazione. E non è infine in qualche modo paura anche quella di Rossellini, a sua volta di fronte al baratro della disfatta – matrimoniale – e della rinascita che vi fa seguito.

Per questo non comprendere il finale, quel finale narrativamente forzato che pretende di ricomporre la coppia anche quando tutto sembrerebbe presagire in modo naturale una tragedia, con il suicidio di Irene, significa nei fatti non aver capito in senso più vasto il significato del film. In quello che sembra quasi un doppio eterozigoto del finale di Viaggio in Italia la coppia si ricongiunge, è vero, ma non si tratta di un cedimento alle logiche più retrive del dramma amoroso o di un happy end classico. Si torni di nuovo, per l’ennesima volta, al titolo: è la paura a dominare Irene e Alberto, la paura di doversi dimostrare veri al di là di ogni apparenza, la paura di doversi confrontare fino in fondo con la società – proprio quella società che non ha avuto il coraggio e la forza di affrontare pubblicamente il proprio dilemma morale –, la paura di dover uscire dalla nicchia confortante del matrimonio. Quello che a uno sguardo disattento può sembrare il modo raffazzonato per ricomporre ciò che è oramai irrimediabilmente rotto (andando incontro dunque a uno scarto narrativo ingiustificato, dopo che il film ha seguito invece con una certa aderenza alla prassi i dettami del racconto “nero”) non è altro che la rappresentazione dell’ipocrisia borghese, la messa alla berlina di una nuova borghesia moderna che non solo è dotata di scarsa morale, ma non ha neanche il coraggio di confrontarsi con il proprio desiderio.

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