What Josiah Saw

What Josiah Saw

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Horror/thriller psicologico, che non provoca salti sulla poltrona ma insinua un notevole disagio sottopelle, What Josiah Saw di Vincent Grashaw sposa l’estetica dell’eccesso per dare forma a una sorta di soap-opera familiare dai toni estremi. Melodramma, poi tragedia, complessa e sovrabbondante, a tratti involuta, che difficilmente può lasciare indifferenti. Con Robert Patrick, Scott Haze e Nick Stahl. Al Torino Film Festival per la sezione Le stanze di Rol.

L’insostenibile trucidezza dei legami familiari

In una vecchia fattoria convivono il padre Josiah, mostro allucinato e fanatico religioso, rimasto vedovo a seguito del suicidio della moglie, e il suo figlio più piccolo, Tommy, profondamente segnato nella psiche dai traumi familiari subiti. Una compagnia petrolifera si dice interessata ad acquistare la fattoria, e questo risveglia l’interesse degli altri due figli, Eli e Mary, andati via di casa da anni per rifarsi una vita con esiti alterni. Eli è uno spostato, sospettato di pedofilia e in libertà vigilata, che fa l’escort per sopravvivere, mentre Mary si è sposata ma, a seguito dei propri trascorsi familiari, ha sempre rifiutato la maternità tanto da farsi sterilizzare, salvo poi ripensarci su spinta del marito e presentare domanda di adozione, sia pure con scarsissima convinzione… [sinossi]

L’orrore della quotidianità e degli incubi generati da una famiglia profondamente disfunzionale. L’orrore della religione, che può essere utilizzata per plasmare e manipolare le coscienze. Terzo lungometraggio del californiano Vincent Grashaw, What Josiah Saw conserva anche un proprio fondamentale versante radicato nel sovrannaturale, ma la sua motivazione più genuina risiede nello scandaglio di orrori psichici e psichiatrici che discendono da un allucinato contesto familiare. Sia chiaro, non si tratta di un horror del reale, non soltanto perché sono evocate figure di ominosi fantasmi, ma anche perché le scelte stilistiche di Grashaw spingono decisamente verso l’eccesso barocco, di forma e di sostanza. Sta proprio nei suoi eccessi, anzi, la chiave convincente del film. Pur rischiando più volte la stecca per sovrabbondanza di temi, di stimoli e di stratagemmi espressivi, straricco com’è di molteplici suggestioni, What Josiah Saw non è infatti un horror da spavento immediato, da salto sulla poltrona, ma suscita un’ampia sensazione di disagio e inquietudine anche dopo aver lasciato la sala a fine proiezione.

Lo script, opera di Robert Alan Dilts, punta il focus narrativo su una famiglia delirante in cui praticamente nessuno si salva dalla turba psichica. Dall’allucinato padre Josiah, figura di genitore-mostro, fanatico religioso e sadico ricattatore psicologico, il disagio coinvolge a diversi gradi di intensità una triade di figli: Tommy, il più piccolo, ben oltre il limite del profilo psicotico, rimasto a vivere con il padre in una fattoria isolata, Eli, finito a fare l’escort dopo essere stato sospettato di pedofilia, e Mary, in cerca di riscatto tramite un elegante matrimonio borghese ma decisamente in difficoltà di fronte alla possibilità di diventare madre – a suo tempo si fece addirittura legare le tube e adesso, cambiata idea su spinta del marito, è in procinto, benché poco convinta, di procedere a un’adozione. Dietro di loro fluttua il fantasma del suicidio della madre, trovata impiccata a un albero nei paraggi della fattoria. Da tempo allontanati, i tre fratelli si trovano a riunirsi per valutare una proposta d’acquisto della fattoria ricevuta da parte di una compagnia petrolifera.

Grashaw struttura questa allucinata parabola familiare in tre capitoli, dando luogo anche a un discreto switch percettivo nel passaggio fra il primo e il secondo – per tutto il secondo segmento il film individua Eli come unico protagonista, scartando notevolmente dall’avvio del racconto, completamente dedicato al rapporto tra il padre Josiah e il fragile Tommy. In tutti e tre i segmenti resta comunque al centro il tema della genitorialità, traslata in varie forme di rapporto tra adulto e bambino – anche Eli, cane sciolto dalla condotta più che discutibile, trova forse una pallida via di riscatto nella liberazione di una bambina vittima di sequestro da parte di una comunità di zingari. Il racconto, come già detto, è sovraccarico, traboccante di motivi e di digressioni narrative, sempre inquadrate in un generale disagio esistenziale. Come sovrabbondante è il racconto, così risulta essere anche la messinscena, barocca, affidata spesso a una fiammeggiante fotografia dai toni dorati e oscuri e a un incessante commento sonoro. Soprattutto, a un rifiuto pressoché totale dell’ellissi. In What Josiah Saw tutto è dichiarato, enfatizzato, reso esplicito, fino a dare reale consistenza visiva a brani di racconto dedicati a temi indicibili come l’incesto – nel primo segmento, la sequenza più borderline è riservata al rapporto tra Josiah e Tommy. Horror, certo, di quello arrembante e frastornante, che affida molti dei suoi compiti alla cura della colonna audio. Horror, ma anche e soprattutto melodramma familiare, che nello scioglimento si traduce in letterale tragedia. Poi, certo, ci sono gli effetti e gli effettacci, c’è il trucco diabolico e stregonesco di Robert Patrick, padre mostruoso, dai tratti talvolta cinicamente autoironici. Sul versante della realistica credibilità si collocano invece le prove di Scott Haze e Nick Stahl (entrambi molto efficaci), prole dalla diversa reazione psichica al dolore e al sadismo perpetuati negli anni dal padre. Nel suo continuo esplodere e riesplodere di conflitti e segreti familiari, nella sequela infinita di colpi di scena (con tanto di twist finale che lascia la soluzione del racconto nell’ambiguità), What Josiah Saw si mantiene costantemente avvincente e sembra spesso evocare la struttura di una soap-opera estrema, riconvertita in dramma orrorifico e sanguinolento, dove il groviglio familiare esplicita tutti i suoi riflessi edipici abitualmente lasciati nel territorio del sottinteso.

Sono altresì entusiasmanti le pieghe impreviste che il racconto talvolta assume, in particolare tutta la seconda parte del film, dedicata ai trafficacci di Eli per sbarcare il lunario con tanto di digressione grottesca nella comunità di zingari. C’è troppo di tutto, si dirà. È evidente che il film di Grashaw, se difetta in qualcosa, difetta per eccesso e per generosità. Di sicuro, come talvolta accade, uscendo dalla sala viene voglia di farsi una doccia per darsi una ripulita di tutto il disagio con il quale si è venuti a contatto. Il linguaggio sovrabbondante di Grashaw non è forse per tutti i palati; può risultare rozzo, ridondante, e per questo alla lunga anche stancante. Eppure, dalla visione di What Josiah Saw è difficile uscire del tutto indifferenti. Non saremo saltati sulla poltrona, ma il brivido del ribrezzo l’abbiamo provato più di ogni volta.

Info
What Josiah Saw sul sito del TFF.

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